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Francesca Tacchi (prefazione di Rita Sanlorenzo) – Eva togata. Donne e professioni giuridiche in Italia dall’Unità a oggi – 2009

Francesca Tacchi (prefazione di Rita Sanlorenzo)
Torino, Utet, XXX-225 pp., euro 18,00

Anno di pubblicazione: 2009

Tacchi racconta per la prima volta in modo compiuto la difficile strada che le donne italiane percorsero per raggiungere il pieno esercizio professionale nel campo giuridico. Nonostante le conquiste il «lungo» cammino non si è però ancora concluso e la scarsa presenza delle donne ai vertici delle rispettive professioni lo dimostra (il famoso «soffitto di cristallo»). La dicotomia pubblico-privato appare poi come un’importante chiave di lettura, non solo per comprendere la storia delle professioni declinata al femminile, ma più in generale per analizzare il rapporto tra avvocatura e magistratura, sia alla luce della funzione per molti versi pubblica esercitata dalla prima, sia con riguardo alla discrasia tra i diritti affermati dalla Costituzione e la loro negazione subita dalle donne nel mondo del lavoro (e non solo) per almeno venti anni dopo la sua approvazione.Dai casi di Linda Poët e Teresa Labriola che alla fine dell’800 tentarono inutilmente la strada dell’avvocatura, alla legge del 1919 sulla capacità giuridica, che riconobbe alle donne la possibilità di esercitare l’avvocatura, il volume si sofferma non solo sulle biografie delle prime laureate in Giurisprudenza, ma anche sul dibattito aperto dai loro tentativi e che vide collocarsi sulle sponde più retrive con una netta continuità – lo sottolinea giustamente l’a. – soprattutto la giurisprudenza delle corti superiori (Consiglio di Stato e Corte di Cassazione), la scienza giuridica e gli ordini professionali. Dal 1919 si aprì per le donne il tempo delle «pioniere»: le prime ad affrontare la «trincea» del tribunale, ad andare «contro corrente», cosa che poteva risultare – sostiene una protagonista dell’epoca – «divertente in un’occasione fuggevole, ma ogni giorno, ogni minuto, in ogni occasione, è una fatica notevole, che si aggiunge allo sforzo comune a tutti dei primi anni di avviamento a una professione» (p. 58). Il fascismo non rappresentò, nello specifico, una cesura significativa, se non, ovviamente, per le restrizioni che, nell’accesso ai pubblici uffici, furono imposte alle donne e per la continua affermazione di un modello femminile tradizionale (certo non in contrasto con il pensiero dominante dell’epoca). Qui l’a. tratteggia con molta efficacia le motivazioni delle donne professioniste, che, sempre in modo minoritario e, talvolta eroicamente, continuavano a partecipare all’agone professionale e politico, seppure per la maggior parte relegate, più o meno per forza, nell’ambito «rassicurante» del diritto di famiglia. Con la Repubblica lo iato tra diritto formale e diritto sostanziale si approfondì, dal momento che la Costituzione sancì un’eguaglianza che, in modo spesso concorde, corpi giudiziari, politica e dottrina giuridica non vollero riconoscere alle donne. Solo nel 1963 il «lungo» cammino sarebbe approdato all’ammissione alla magistratura: «cittadella» duramente ed efficacemente difesa dall’attacco femminile per circa cento anni. Dagli anni ’60 le donne poterono iniziare ad aspirare – citando l’a. – alla «normalità» nell’esercizio professionale: ma anche questo sarebbe stato (e ancora è) un traguardo lungo e difficile da conseguire.

Antonella Meniconi