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Francesco Pappalardo – Il mito di Garibaldi. Vita, morte e miracoli dell’uomo che conquistò l’Italia – 2002

Francesco Pappalardo
Alessandria, Piemme, pp. 252, euro 14,90

Anno di pubblicazione: 2002

Francesco Pappalardo si sobbarca alla difficile impresa di ricostruire il mito di Garibaldi. Difficile non perché manchino studi o fonti a cui attingere ma al contrario perché sono troppi, rileva Raymond Grew, sicché l’immagine dell’Eroe appare ormai ?difficilmente sensibile a modificazioni dovute all’evidenza di nuovi documenti o alle argomentazioni di una più moderna interpretazione?. Citazione ardita, questa che Pappalardo premette al volume, perché può accrescere pericolosamente le aspettative del lettore (siamo forse di fronte ad una revisione ermeneutica?) o al contrario deprimerne lo spirito (è l’ennesima collazione della sterminata letteratura garibaldina?). La realtà, come talvolta capita, è mediana. Per un verso, Pappalardo non si esime dal ripercorrere le fortune storiografiche del marinaio più famoso d’Italia. Per altro, mette in campo un’inconsueta ispirazione cattolica dalle evidenti venature integraliste. Ma bisogna dire che l’accoppiata di questi aspetti non è priva di interesse.
L’interesse sta proprio nel fatto che la chiave di lettura è esplicita, forte, faziosa. Il Congresso di Vienna? Un lungo periodo di pace. I rivoluzionari primo-ottocenteschi? Germi di ?corruzione delle idee e dei costumi?. Pappalardo preferisce le autonomie locali allo Stato centrale, il popolo alla borghesia francesizzante, le politiche di protezione sociale al verbo liberista, il governo romano a quello torinese, irreligioso e anticlericale. Lo schema interpretativo è antiliberale, sospettoso della modernizzazione, filocontadino (di contadini, fra i Mille, neppure l’ombra?) e dunque capovolge l’immagine codificata di Garibaldi, riprendendo sistematicamente i giudizi di quanti ebbero a combatterlo sul campo di battaglia, sui giornali, sui pamphlet. Dell’avventura uruguagia, a essere sottolineati sono i presunti saccheggi di alcuni villaggi. Dell’impresa romana, l’ostilità delle comunità rurali verso le camicie rosse. Del 1860, le trame corruttive dei piemontesi. E via dicendo. Notazioni non di rado sbrigative, che tuttavia costituiscono una specie di utile sommario di tutti quei topoi che meriterebbero, effettivamente, ulteriori analisi archivistiche e sforzi interpretativi spregiudicati. Magari non sarà Pappalardo a sciogliere i nodi ma resta il fatto che la tradizione risorgimentista è, da oltre un secolo, fra i settori più coinvolti nel cosiddetto uso pubblico della storia.
Un interesse supplementare sta nel fatto che questo Garibaldi alla rovescia non emerge soltanto da una certa semiclandestina letteratura antiunitaria e antiliberale: l’autore attinge a piene mani anche alla migliore saggistica sull’Ottocento italiano, Isnenghi e Soldani, Romanelli e Detti, Capone e Riall ecc. Né gli sfugge un Omar Calabrese di alcuni anni fa, dedicato alla densa linea semiologica che da Garibaldi porta a Sandokan. E pur con alcune vistose eccezioni (come si fa, enumerando gli studiosi delle ?insorgenze?, a ignorare Gabriele Turi o Anna Maria Rao?) o con ingenuità deplorevoli (perché citare il Cavour di Romeo senza virgolettarlo?), l’uso non episodico di un apparato storiografico vasto e accorsato permette a Pappalardo di costruire il suo acre anti-Risorgimento con materiali tutt’altro che effimeri. Il che rende meno effimero ? sebbene non meno fazioso ? l’intero volume.

Paolo Macry