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Gabriele Ferluga – Il processo Braibanti – 2004

Gabriele Ferluga
Torino, Silvio Zamorani, 2003, pp. 270, euro 18,00

Anno di pubblicazione: 2004

Il processo ad Aldo Braibanti fu uno dei casi di cronaca giudiziaria più famosi degli anni Sessanta. Accusato di plagio nei confronti di due ragazzi, con i quali aveva avuto intensi rapporti umani e intellettuali, Braibanti (ex partigiano comunista, filosofo, vicino agli ambienti della nuova sinistra allora in formazione) fu condannato a nove anni di carcere dal Tribunale di Roma nel luglio del 1968, al termine di un dibattimento che appassionò e divise l’opinione pubblica. Al centro delle polemiche stava soprattutto la contestazione di un reato, il plagio, difficile persino da definire e che di fatto non era mai stato giudicato in precedenza, ma che ben si prestava (nel clima conformista e bigotto dell’epoca) a sanzionare comportamenti e stili di vita ritenuti incompatibili con la morale corrente. E in effetti fu del tutto evidente, nel corso del processo, che quanto veniva contestato a Braibanti, sotto l’etichetta di plagio, era in realtà l’aver avuto rapporti omosessuali con quei ragazzi: il che non costituiva in sé un reato, per il Codice penale, ma fu cionondimeno il cardine dell’accusa e il vero motivo di scandalo per la stampa conservatrice.
Solitamente quella vicenda viene ricordata in quanto emblematica di un contesto storico-culturale (quello italiano degli anni Sessanta), fortemente intriso di una concezione arcaica e autoritaria dei rapporti interpersonali, e destinato a essere travolto dal nuovo spirito dei tempi, nato proprio nel ’68 attorno alle proteste giovanili e alle lotte studentesche. Anche se, per la verità, bisognò attendere sino al 1981 perché la Corte Costituzionale (in seguito a un altro processo per plagio) dichiarasse illegittimo l’articolo 603 del Codice penale. E anche se non sono molti i volumi sulla storia italiana del secondo dopoguerra che ne accennino, seppure di sfuggita.
Questo libro offre per la prima volta una ricostruzione analitica e completa non solo dei fatti, dei suoi protagonisti e dell’andamento del processo (con qualche eccesso di prolissità e qualche ripetizione, forse, nella narrazione del dibattimento in aula), ma anche dei commenti dei giornali, dei diversi atteggiamenti dell’opinione pubblica, delle campagne che si svolsero a favore dell’imputato dopo la sua condanna. Ma lo fa, contrariamente a quanto all’epoca dissero e scrissero anche coloro che difendevano Braibanti, adottando come chiavi di lettura privilegiate la questione dell’omosessualità e l’omofobia imperante nella società dell’epoca. Il processo, secondo l’autore (su cui purtroppo non vengono fornite informazioni biografiche), ruotò tutto attorno all’omosessualità dell’imputato, pur senza poterlo dichiarare esplicitamente. E l’aspetto più significativo dell’intera vicenda starebbe proprio in quel complesso di reticenze, di ipocrisie, di imbarazzi e di morbosità con cui essa fu seguita e commentata anche da parte dei settori di intellettualità più solidali con l’imputato. Specchio di una cultura che (ancorché progressista) faticava persino a parlare liberamente e senza autocensure dell’argomento.

Marco Scavino