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Gabriele Polo – Il mestiere di sopravvivere. Storie di lavoro nella crisi di una città-fabbrica, Postfazione di Fulvio Perini – 2000

Gabriele Polo
Editori Riuniti, Roma

Anno di pubblicazione: 2000

Gabriele Polo si occupa di movimento operaio e sindacale alternando contributi giornalistici, editi dal quotidiano “il Manifesto”, a saggi di approfondimento con taglio storico-sociale. Tra questi ultimi, vanno ricordati I tamburi di Mirafiori (Torino, Cric editore, 1989), con Marco Revelli, Fiat: i relegati di reparto (Roma, Erre Emme, 1992) e con Claudio Sabattini, Restaurazione italiana (Roma, Manifestolibri, 2000).
Il mestiere di sopravvivere – con le parole di Polo – è “un viaggio nel lavoro che cambia (e) cerca di raccontare la sensazione dominante di insicurezza che le politiche liberiste portano con sé intrecciando storie personali con l’indagine scientifica, la soggettività con i dati” (p. 7).
Si tratta forse di un lavoro di “inchiesta”? La risposta è senz’altro affermativa poiché si situa chiaramente nella scia di una tradizione culturale e politica che, a partire dalla fine degli anni cinquanta, ha inteso intrecciare il piano dell’oggettività, della materialità dei processi sociali e lavorativi con quello della percezione individuale o collettiva, della rappresentazione della realtà, della soggettività attraverso il ricorso alle fonti orali (Raniero Panzieri, Danilo Montaldi, Gianni Bosio).
In questo caso, il teatro della ricerca è Torino. Le interviste che ne costituiscono la principale intelaiatura sono raccolte in parte dall’autore, in parte da un gruppo di studio sui lavori “atipici” coordinato da Aldo Bonomi per il Cnel.
Nei tre capitoli che compongono il saggio sfila una galleria di personaggi eterogenei sullo sfondo della storia Fiat degli ultimi cinquant’anni. Si tratta di figure lavorative tipiche e “atipiche” che mediante il loro profilo culturale, sociologico, lavorativo e politico concorrono a tracciare i lineamenti di quello che con linguaggio à la page si definirebbe post-fordismo: delocalizzazione, flessibilità, centralità della comunicazione, precarietà, eterodirezione. Si incontra così la vicenda di Marco G., produttore di siti internet per conto terzi ed esposto alla doppia dipendenza dell’impresa madre e del committente. Ci si imbatte anche in Cristina B. “collaboratrice esterna di case editrici e agenzie editoriali” (p. 56) sottoposta a ritenuta d’acconto del 19% o in Lucilla F., collaboratrice “coordinata e continuativa”, paradigma dei nuovi lavori formalmente autonomi e concretamente subordinati (Sergio Bologna). Infine, trovano spazio i “residui” (gli operai) e gli “invisibili” (gli immigrati).
Nell’impossibilità di dare conto di tutte le storie, si può invece individuare un filo che le inanella tutte. È il nesso tra lavoro e identità politica ad affiorare tra le pieghe di ogni narrazione e a palesarsi sottoforma di divaricazione tra l’essere sociale del lavoro e l’essere della coscienza politica, dell’identità individuale o di gruppo. In definitiva, è proprio questa separazione a mostrarsi come uno dei tratti più marcati dei nuovi lavori nell’epoca dell’”accumulazione flessibile”.

Andrea Rapini