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Gabriele Rigano – Il caso Zolli. L’itinerario di un intellettuale in bilico tra fedi, culture e nazioni – 2006

Gabriele Rigano
Milano, Guerini Studio, 447 pp., euro 29,50

Anno di pubblicazione: 2006

Il caso Zolli è stato a lungo rimosso dalla storiografia sugli ebrei in Italia: riaprirlo significa renovare dolorem, per le comunità italiane, ma non soltanto per loro. La razzia nel ghetto di Roma (16 ottobre 1943) è di gran lunga l’episodio più tragico della Shoah in Italia, innanzitutto per il modo come si svolse (la trattativa per la consegna dell’oro, gli arresti casa per casa). Rigano, con pacatezza, ci fornisce il punto di vista di colui che abbandonò la scena il giorno in cui i tedeschi entrarono in Roma e perciò fu considerato un transfuga. Rigano non si atteggia mai ad avvocato difensore, si limita a riportare la voce di un testimone oculare non ascoltato. A Roma, Zolli era arrivato controvoglia nel 1939 (era nato a Brody in Galizia nel 1881), accettando di lasciare Trieste, dove era stato a lungo ministro di culto. L’autore fa bene a ricostruire, con grande scrupolo, la carriera dello studioso, ritornando sui suoi studi maggiori, segnati dall’esperienza del modernismo e dalla contiguità con altri analoghi itinerari ebraici del primo Novecento (Chajes, Cassuto, lo stesso Dante Lattes). Il libro fornisce una esauriente bibliografia degli scritti. C’è da rilevare l’opportunità, che Rigano non si è lasciato sfuggire, di esaminare per la prima volta le carte di un fascicolo dell’Unione delle Comunità piuttosto incandescente. Risulta un po’ forzata la tesi secondo cui vi sarebbe continuità fra gli interessi giovanili sul profetismo di Gesù e la conversione, che fu invece la tragica conseguenza delle lacerazioni determinatesi dopo le giornate dell’autunno 1943. Una conversione «per vendetta», secondo le parole dello stesso Zolli, ripetute in un’intervista al quotidiano «Maariv» il 9 giugno 1950: uno dei documenti più notevoli da Rigano riprodotti in appendice (pp. 389-397). L’ignaro corrispondente del giornale israeliano, con la freschezza e la sincerità del sabra, toglie alla vicenda quell’aura demoniaca che Zolli medesimo contribuì a creare. I documenti con i quali Rigano ha dovuto fare i conti sono pieni di calunniosi insulti, di maldicenze, di veleni sottili e accuse invereconde, da cui non esce bene nessuna delle parti in causa: un ritratto impietoso dell’ebraismo italiano pur dopo il 1938 incredulo, anzi cieco di fronte al precipitare degli eventi. Zolli è in realtà un pretesto che ci consente di osservare questioni assai più ampie. Interessantissime sono le fonti alleate, forse un po’ sottovalutate dall’autore: in specie i rapporti dei rabbini militari inglesi e americani che lodevolmente cercarono di evitare la guerra civile entro i vicoli del Portico d’Ottavio. Il progetto degli Alleati di defascistizzare le comunità italiane rimase sulla carta, come Rigano spiega forse in modo troppo ellittico (p. 269). La questione è invece molto seria, perché in quel progetto non ascoltato si proietta l’ombra di una inquietante continuità fra passato e futuro: l’ebraismo italiano, ancora nel 1946-1947, nonostante tutto quello che era successo, rimaneva prigioniero di se stesso e non coglieva l’opportunità derivante dalla libertà a caro prezzo riconquistata.

Alberto Cavaglion