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Gian Enrico Rusconi – Clausewitz, il prussiano. La politica della guerra nell’equilibrio europeo – 1999

Gian Enrico Rusconi
Einaudi, Torino

Anno di pubblicazione: 1999

Quest’opera ha il grande merito di ambiziosamente confrontarsi con un gigante come Clausewitz e con temi quali la guerra e la concezione che di essa ebbe il prussiano. Il fatto che sia stato edito nell’anno della guerra per il controllo del Kossovo ha giovato alla fortuna del volume, che è stato discusso anche in sede giornalistica e pubblicistica. Un altro merito sta nelle fonti scelte, che sono le più recenti raccolte tedesche di scritti clausewitziani e una buona parte (era possibile tutta?) della storiografia e della riflessione filosofico-politologica sul militare prussiano: fonti non ignote agli esperti, ma mai sfruttate e discusse assieme in un’opera per un pubblico più largo in Italia. Si sbaglierebbe inoltre il lettore che credesse questa un’anodina opera di mediazione culturale fra ambiti disciplinari (storia, scienza politica) o linguistici (tedesco, italiano): ché l’a. ha elaborato qui sue proprie e ben risolute idee. Fra queste, una plurima “riduzione” di Clasuewitz: al suo mero essere stato un militare, con tutti i limiti tipicamente associati alla cultura militare; al suo essere prussiano (secondo una concezione che potremmo dire Ritteriana); al suo operare in una ben determinata congiuntura storica (l’era napoleonica e le sue immediate prossimità): con tutto quello che ne conseguirebbe – negativamente – nella possibilità concreta di estendere più di tanto il valore o l’applicabilità della sua interpretazione delle guerre, se non addirittura della guerra. Da cui, infine, la scarsa utilità del clausewitzianismo per comprendere – storicamente, politologicamente – le guerre dell’età nucleare, e forse anche le stesse guerre del Novecento. Particolare impegno, infine, è messo nel tentare di demolire il carattere “liberale” (più o meno entro limiti “prussiani”, si intende) delle proposte politiche e dell’approccio interpretativo di Clausewitz: il quale pure – nelle congiunture assai rigide ed autocratiche della Prussia del tempo – militò fra i riformatori e fra i sostenitori di un esercito “di popolo” (Nazione armata) rispetto agli eserciti di volontari, di professionisti e “di caserma” (se ancora il linguaggio di Monteilhet, Ritter e Pieri può oggi essere utilizzato). In questo la polemica dell’a. con gli studi di Peter Paret o di Michael Howard appare decisa, anche se non sempre convincente. Difficile dire se questa sarà l’ultima biografia, o biografia intellettuale, su Clausewitz. Certo è che merito dell’a. è aver ricordato che – su temi così importanti e decisivi non solo per i cultori di storia militare – era “tempo di una rilettura di Clausewitz meno strumentale, più problematica e riportata criticamente al suo contesto politico” e storico. A condizione di riconoscere, però, che è quanto anche altri (Paret, Howard ecc.) avevano fatto, immersi nel loro tempo, che non è quello delle guerre del post-bipolarismo.

Nicola Labanca