Anno di pubblicazione: 2006
Il volume viene fuori da una tesi di dottorato e insiste su un terreno che fu già di Marino Berengo con il suo Intellettuali e librai. Di quel libro, I mestieri si incaricano di integrare e correggere la prospettiva. La Milano post-napoleonica resta, nonostante la grande vivacità intellettuale degli anni immediatamente precedenti, un luogo dove il letterato fatica a diventare professionista, e i legami della sua tradizionale dipendenza si rinsaldano, sullo sfondo della crisi del mecenatismo, nelle forme di una rinnovata fedeltà alle istituzioni, laiche o ecclesiastiche che siano. Di fronte ad un libro come questo non si sa se essere più indulgenti o più esigenti. Troppe discussioni metodologiche, infinite e inconcludenti, tengono il lettore perennemente sulla soglia di un lavoro che sta per cominciare e non comincia mai. Che allude senza mai entrare nel merito delle questioni. Abbiamo letto con simpatia, appena all’inizio del libro, il cenno alla fatica della tesi scritta in francese e poi tradotta in italiano, abbiamo immaginato quel doppio lavoro mentale di chi pensa in una lingua e poi deve scrivere in un’altra, ma perché infliggere al lettore, pure così partecipe, la pena di quasi cinquecento pagine di un insopportabile gergo «scientifico» che per essere stato pensato (e scritto) en sociologue (et en français) non risulta meno indigesto? Per spiegare i rapporti tra Domenico Cervelli, uno dei pochissimi casi (tre in tutto) cui Albergoni dedica la terza ed ultima parte della sua ponderosa ricerca, e il lessicografo Francesco Cherubini, l’autore di un Vocabolario milanese-italiano che tanto piacque a Manzoni, ma soprattutto funzionario governativo e direttore generale delle scuole elementari lombarde, il nostro dispiega tutta la sua passione teoretica e quella che era una relazione sospesa tra condivisione di interessi letterari e clientela, diventa «una struttura di sostegno, egualmente utilizzabile nei due ambiti ? letterario e professionale» che si scompone «nell’insieme di relazioni che il lessicografo milanese era in grado di garantire al professore toscano, soprattutto con i letterati più vicini al polo istituzionale» (p. 332). Al centro del lavoro di Berengo c’erano i destini personali di una generazione intellettuale mobilitata dalla rivoluzione e dall’entusiasmo napoleonico, la loro evoluzione negli anni della Restaurazione. Soprattutto c’era un problema, che non era tanto quello del mercato del libro, ma della nascita della cultura liberale. Di che parla Albergoni? Le generazioni del suo libro sono un mero criterio aritmetico di classificazione degli «attori» sociali, indicatori alfanumerici che servono a distribuire in maniera più efficace il materiale documentario. Tralasciando l’insussistenza delle partizioni cronologiche fissate dall’autore, quello che colpisce è l’indifferenza nei confronti del molteplice storico che questa ansia di sistema produce. Gli esiti sono di una genericità tale da smarrire proprio quello che, a stare alle intenzioni del nostro autore, è l’obiettivo del suo lavoro di ricerca: la storicità delle categorie sulla base delle quali si pensa il mondo sociale.