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Gianni Marongiu – Storia dei tributi degli enti locali (1861-2000) – 2001

Gianni Marongiu
Padova, Cedam, pp. XVIII-348, euro 22,21

Anno di pubblicazione: 2001

Nel trattare i rapporti centro e periferia la storiografia ha sempre privilegiato il tema della autonomia politica, mettendo in secondo piano il nodo delle risorse a disposizione delle amministrazioni locali per svolgere le funzioni loro assegnate. Nessuno si è cimentato in anni recenti su tale tema e con tale ampiezza e l’opera colma una evidente lacuna. Il lavoro è apprezzabile anche per la capacità di allargare il discorso al rapporto fra i gruppi sociali e fra le diverse aree territoriali del paese che sottostà alla geometria dei sistemi fiscali.
Positivo è il giudizio sull’impianto fiscale della Destra storica, basato su poche imposte reali e su una fiscalità locale imperniata sulle addizionali più pochi tributi propri, fra cui uno vagamente proporzionale, come la tassa di famiglia, e su un equilibrio ragionevole fra imposte dirette e indirette. Molto critica è invece la disanima dei numerosi e inconcludenti tentativi di riforma fiscale compiuti fra la fine dell’800 e il 1922. Marongiu si addentra nel dibattito sulla fiscalità statale, anche perché quasi nulla viene innovato per gli enti locali, sottolineando la miopia delle classi dirigenti liberali che, rifiutando una riforma in senso progressivo dell’imposizione, privarono lo Stato (e gli enti locali) della possibilità di dare maggiore elasticità alle politiche di spesa e di progettare una qualsiasi politica di riforme sociali.
Il fascismo perseguì una politica di contenimento della pressione fiscale, poi, dopo la riforma in senso autoritario degli ordinamenti locali, ridusse spese ed entrate, facendo della finanza locale una finanza sempre più derivata e dipendente dalle decisioni del governo, pur con innovazioni tecniche di un certo rilievo, come l’abolizione delle cinte daziarie.
Il fascismo ebbe almeno il pregio della coerenza, allineando la gestione finanziaria all’impronta autoritaria e di annullamento delle autonomie locali perseguita dal regime. Coerenza che mancò ai governi repubblicani quando, alla restaurazione degli ordinamenti elettivi, non fecero corrispondere una adeguata capacità impositiva degli enti locali, caricati di sempre più gravosi compiti in relazione ai mutamenti sociali provocati dal boom economico. La riforma tributaria del 1971 ebbe effetti sconvolgenti sulla finanza locale. In nome della razionalità (poche grandi imposte) si abolì quasi per intero l’autonomia tributaria degli enti locali, facendo delle loro finanze un sistema basato sui trasferimenti statali. Ma il metodo adottato per determinare i trasferimenti congelò le sperequazioni in atto e finì per rendere gli amministratori locali irresponsabili nei confronti dei propri programmi di spesa. Eppure il sistema, causa non ultima del crescente indebitamento statale, si è retto fino alla riforma del 1990. Da allora è iniziato un rovesciamento di prospettiva, che ha riportato in rilievo la capacità impositiva degli enti locali, assieme alla conquista di ben maggiori spazi di autonomia politica e di responsabilità degli amministratori, come mai si era verificato nella storia del nostro paese.

Alessandro Polsi