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Giovanni Belardelli – Luciano Cafagna, Ernesto Galli della Loggia, Giovanni Sabbatucci, Miti e storia dell’Italia unita – 1999

Giovanni Belardelli
il Mulino, Bologna

Anno di pubblicazione: 1999

Quattro storici firmano ventisette voci, o brevi capitoli, dedicati a vicende storiche come Il brigantaggio, Fascismo e grande capitale, Le riforme di struttura, o a espressioni topiche ideologicamente cariche (Il saccheggio del Sud, Il ministro della malavita, Le radiose giornate, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, La conquista regia, La mancata rivoluzione agraria, La Resistenza tradita, ecc.), a volte espresse da titoli celebri (Il lungo viaggio attraverso il fascismo) o da frasi stereotipe (“Gli italiani non si battono”, “Fare come in Russia”, “Anche l’Italia ha vinto la guerra”). L’intento dichiarato dai prefatori – due dei quattro – è quello di “descrivere e analizzare” “in che modo e perché intorno ad alcuni di tali avvenimenti si sono formate rappresentazioni sostanzialmente mitiche, o che comunque avevano poco a che fare con il reale svolgimento dei fatti” (p. 5). Dunque rivisitazioni, variamente modellate sulle diverse – molto diverse – inclinazioni degli autori. Ne risultano puntualizzazioni critico-informative (molto efficaci mi paiono ad esempio Belardelli sul Lungo viaggio o Sabbatucci sulle Radiose giornate e sul Doppio stato), resoconti di routine (su l’idea di Roma, o sulla personalità di Giolitti), oppure intensi microsaggi (si vedano le fulminanti quattro pagine e mezzo con le quali Cafagna tipizza e interpreta la mancata rivoluzione agraria, o il suo pensoso epitaffio sulla via italiana al socialismo), o anche originali costruzioni di percorsi mitico-discorsivi (così Galli della Loggia sulla rivoluzione fascista, sulla Resistenza tradita o sul mito della costituzione).
L’engagement prevale sull’intento analitico, che pure è serrato ed efficace. Lo dicono già la scrittura densa, la mancanza di riferimenti, rinvii, indici, e poi la rinuncia – non già a definire il “mito”, termine che si può accettare nell’accezione corrente di “elemento per così dire manipolato e/o enfatizzato del discorso pubblico, al di là di ogni sua riscontrabile base fattuale” (p. 157), – bensì a fornire qualche coordinata sul rapporto tra “avvenimenti” e “rappresentazioni”, un tema tra i più frequentati dal dibattito storiografico recente, in Italia e più ancora fuori d’Italia. Piuttosto, la discutibile affermazione per la quale la vicinanza tra storiografia e politica è “fenomeno tipicamente italiano” (p. 24), tradisce il senso del libro, che è un contributo al particolare “uso politico della storia” praticato in Italia. Ecco perché mal si distingue qui tra “miti” e interpretazioni: trattandosi comunque di dure critiche alle classi dirigenti del paese, essi “recano quasi tutti un segno ‘di sinistra’” (p. 8) – ovvero un segno democratico-orianesco-gobettiano-gramsciano-comunista. Il bombardamento su questo tracciato stana i cattivi, ma non risparmia l’habitat. In effetti, all’apparire del libro qualche reazione sopra le righe c’è stata.

Raffaele Romanelli