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Giovanni Tessitore – L’utopia penitenziale borbonica. Dalle pene corporali a quelle detentive – 2002

Giovanni Tessitore
Milano, Franco Angeli, pp. 222, euro 17,50.

Anno di pubblicazione: 2002

Utopia è il luogo che non c’è. Utopica è ogni impresa che percepiamo come impossibile, ma che siamo portati ad apprezzare per la tensione morale e la progettualità che sottintende. In quest’ottica, mostrando grande fiducia nelle intenzioni dei riformatori ottocenteschi, Tessitore ci invita a leggere il progetto avviato dal governo borbonico per sostituire al caotico impianto penitenziario del regno uno più organico, al pari con il nuovo significato attribuito alla pena detentiva. Quell’utopia durò poco più di trent’anni: dal 1812, anno dell’effimera Costituzione liberale siciliana, al 1848. Alla vigilia dell’Unità ogni velleità riformatrice era ormai tramontata, come testimoniano le vicende del carcere dell’Ucciardone, che avrebbe dovuto rappresentare un vanto per la città di Palermo e ne divenne invece la vergogna. Costruito per contenere 1.500 detenuti, nel 1866 ne ospitava più del doppio. Non certo un luogo ideale per la rieducazione dei criminali, ma testimone perfetto di quanto potesse esser forte lo scarto tra il progetto riformista e la realtà. All’Ucciardone è dedicato l’ultimo dei cinque capitoli del libro, costruito sulla base di una ricca documentazione d’archivio. Gli altri, cui si aggiunge una robusta premessa, trattano dell’evoluzione della pena in età moderna e, a seguire, delle vicende del caso siciliano: il sistema delle pene nel codice del 1819, le strutture carcerarie dell’isola, la realtà palermitana.
Il volume è senza dubbio molto denso. Offre molte informazioni su un soggetto in parte inesplorato, tanto complesso da rendere inevitabile qualche svista, e non è un testo troppo tecnico o accessibile ai soli addetti ai lavori, anche se non è sempre di facile lettura. Le pagine conclusive sono le meno convincenti. Ci vien detto che le riforme carcerarie, facili da concepirsi, sono però di difficile applicazione. Per apprezzare appieno gli effetti di un’eventuale riforma occorrerebbe un periodo di tempo sufficientemente lungo e tranquillo. Il funzionamento delle istituzioni penitenziarie è condizionato da molteplici fattori, politici, sociali, economici, che possono avere un’enorme influenza sul trattamento riservato ai detenuti, sino a cessare di farne un semplice metodo di esecuzione della pena e farlo tornare ad essere, attraverso un voluto inasprimento, la vera sofferenza che si vuol infligger loro. Semplificando, se l’utopia borbonica rimase tale fu solo a causa delle condizioni che si vennero a creare nell’isola, in seguito ai disordini del 1837 e della rivoluzione del 1848, che imposero l’adozione di provvedimenti repressivi di ogni genere. Ma neppure dopo l’Unità fu mai portato a compimento un progetto di riforma; lo avrebbe impedito una lunga serie di ?equivoci?, che avrebbero poi caratterizzato, come quella borbonica, anche ?l’utopia penitenziale mussoliniana?. Forse che proprio dietro questa lunga sequela di occasioni mancate sia da leggere il vero successo del carcere? Non sarà che alcune conseguenze della detenzione, forse non volute inizialmente, poi riconosciute di una qualche utilità, abbiano finito per essere rafforzate e impiegate deliberatamente? La prigione sopravvive in virtù dei suoi stessi limiti, sosteneva Foucault. Il dubbio, resta.

Simona Trombetta