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Gli ammutinati delle trincee. Dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale 1911-1918

Marco Rossi
Pisa, Bfs, 89 pp., € 10,00

Anno di pubblicazione: 2014

Rossi vuol indagare un fenomeno già ampiamente analizzato dalla storiografia, il dissenso militare in tempo di guerra. Ricollegandosi a quanti vedono una certa continuità nella mobilitazione italiana per il conflitto italo-turco e la Grande guerra, l’a. amplia però l’arco cronologico includendo in un unico discorso il periodo 1911-1918, «nella convinzione che tra le sabbie tripoline sia possibile scoprire consistenti tracce di quell’antimilitarismo popolare che sarebbe riaffiorato dal fondo delle trincee isontine» (p. 14).
Se dunque il tema è senza dubbio rilevante e la periodizzazione convincente, nel complesso il libro tradisce però le attese, rivelandosi così debole da rischiare di scivolare in un pamphlet militante dal sapore un po’ rétro.
La documentazione è infatti costituita dalla stampa periodica dell’Estrema, da scritti di uomini vicini ai movimenti antimilitaristi e da alcune sentenze dei tribunali di guerra, fonti attraverso la cui mediazione l’a. recupera ‒ senza peraltro segnalare l’effetto distorcente che ne deriva ‒ anche le voci di attori (prefetti, autorità militari, gli stessi soldati) che pure hanno lasciato ampie e meno mediate testimonianze, facilmente accessibili e almeno in parte edite grazie per esempio ai tanti studi basati sugli archivi della scrittura popolare.
L’attenzione nel ricostruire singoli episodi di disobbedienza, rilevanti soprattutto per l’eco dato loro dai fogli anarco-socialisti, porta inoltre l’a. a perdere di vista il quadro d’insieme entro cui queste vicende s’iscrivono (manca, per esempio, un tentativo di quantificare il fenomeno-dissenso in termini assoluti e relativi, salvo un richiamo ai numeri dell’attività dei tribunali militari a p. 49, un dato però grezzo e per di più privo del relativo riferimento bibliografico/archivistico), un quadro che la letteratura disponibile ci dice caratterizzato in larga parte da una rassegnata accettazione della guerra o, al massimo, da un rifiuto individuale e prepolitico del conflitto.
Trovano quindi giustificazione in questa prospettiva fortemente ideologica e per di più asfitticamente italocentrica (uno sguardo a quanto accade in altri eserciti avrebbe a sua volta aiutato a relativizzare alcuni dati) la propensione a un lessico enfatico ricalcato sul modello retorico tipico della propaganda antimilitarista, e una bibliografia tanto sbilanciata e lacunosa da mancare di studi importanti per inquadrare non solo le dinamiche interne alla macchina militare italiana e alla vita degli uomini in divisa (Rochat, Del Negro, Mondini, etc.), ma anche il fenomeno guerra in sé (Fussel, Keegan, Bourke, etc.). Probabilmente per questo, pure quando l’a. propone una selezione di belle immagini o prova a ragionare sul concreto operato dei giudici, riprende spesso cliché ormai superati e si avventura in affermazioni che tradiscono una conoscenza superficiale della storiografia su temi centrali in uno studio sul dissenso in uniforme, quali la costruzione del discorso pubblico sull’esercito, il disciplinamento e la giustizia militare.

Marco Rovinello