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Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana

Davide Conti
Torino, Einaudi, 280 pp., € 30,00

Anno di pubblicazione: 2017

Il libro si propone di analizzare il percorso che permise ad alcuni uomini dell’apparato
statale italiano, e in particolare della pubblica sicurezza e dell’esercito, di continuare
a occupare posti di rilievo nel periodo repubblicano, nonostante avessero svolto ruoli
decisivi nell’Italia fascista. Per farlo, l’a. ha scelto un taglio ben preciso costruendo il testo
come un insieme di biografie professionali, e in alcuni casi politiche, di tre uomini della
Pubblica sicurezza come Ettore Messana, Ciro Verdiani e Rosario Barranco; un carabiniere,
Ugo Luca, e tre militari quali Giovanni Messe, Taddeo Orlando e Giuseppe Pièche
(si incrociano molte altre biografie cui non è dedicato altrettanto spazio). Un taglio del
genere ha ovviamente dei costi per il lettore, perché rende più difficile cogliere un quadro
interpretativo di insieme, che tuttavia possiamo meglio delineare grazie all’Introduzione,
dove bene vengono messi in luce i problemi di fondo, alla Conclusione, dedicata al «processo
Roatta», e al fatto che comunque questi sette tagli diacronici vengono risolti in un
lasso cronologico abbastanza breve, poiché il testo si concentra essenzialmente sul periodo
compreso tra la guerra e i primissimi anni ’60.
Alcuni dei casi presi in esame dal libro, in realtà, segnalano un tempo più lungo,
poiché si tratta di uomini entrati in servizio prima ancora dell’avvento del fascismo. Due
luoghi sembrano occupare uno spazio centrale in questa ricostruzione: i Balcani e la Sicilia.
Molte delle persone di cui si parla furono infatti impegnate in prima persona nell’occupazione
della Jugoslavia o della Grecia, e nella gestione di territori con compresenza di
italiani e slavi (specie sloveni), e subito dopo la guerra vennero dislocate in Sicilia per la
lotta al banditismo. Da quel momento le loro carriere si snodarono tra casi di cronaca
nera, che mostravano un facile ricorso alla tortura anche in età repubblicana, progetti più
o meno attuati di schedature politiche in chiave anticomunista e, in alcuni casi, tentativi
di golpe.
I problemi storiografici insiti in una ricerca del genere sono notevoli: la storia degli
apparati di sicurezza, la continuità delle istituzioni nel passaggio di regime, la complessa
frizione tra memoria dell’antifascismo e montare dell’anticomunismo, i nessi tra riorganizzazione
dello Stato e rapporti con gli Alleati e, anche con quest’ottica, il difficile paragone
col caso tedesco. In generale, l’a. delinea l’atteggiamento di parte del ceto politico
italiano che, negli anni del centrismo, si è posto il problema di assimilare all’interno della
Repubblica un corpo sociale estraneo in gran parte ai valori della Resistenza, e si dice certo
che anche per questo motivo parte di quella classe dirigente (spicca su tutti Mario Scelba)
abbia alla fine agito «operando paradossalmente, in particolare nel primo decennio
repubblicano, una rottura più profonda con la Resistenza piuttosto che con l’eredità del
regime fascista» (p. 21

Matteo Di Figlia