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I Donchisciotte del tavolino. Nei dintorni della burocrazia

Isabella Zanni Rosiello
Roma, Viella, pp. 192, € 22,00

Anno di pubblicazione: 2014

Prendendo spunto da una definizione di Mario Soldati, questo volume è giocato su due livelli: uno metodologico sull’utilizzo delle fonti letterarie e cinematografiche e un altro d’analisi che invece si addentra, abilmente, nella storia degli impiegati, dei senza storia, confinati al silenzio – dal quale emergono, se emergono, «tramite voci e rappresentazione spesso costruite da altri» (p. 86) – e quindi in quel mondo della burocrazia e dello Stato per definizione, dalla fine dell’800 agli anni ’50, che solo apparentemente sembra immobile, senza tempo.
Nei capitoli iniziali l’a. svolge una ricerca complessa intorno all’approccio verso queste tipologie di fonti, partendo dai dibattiti che hanno impegnato la storiografia negli anni ’80. In sostanza, Zanni Rosiello è fermamente convinta che per comprendere il mondo della burocrazia non sia efficace la sola fonte archivistica; anzi, per molti versi, risulta assai debole nel ricostruire le abitudini, le pratiche di vita degli impiegati, le loro ambizioni e le loro aspettative. L’a., quindi, intreccia la lettura multidisciplinare di queste fonti – sviluppando un’analisi convincente (forse solo un po’ troppo insistente sul lato della ricostruzione delle edizioni dei libri presi in esame) della struttura dei testi, dei linguaggi, delle biografie degli autori, delle forme di narrazione – intersecando anche i temi e i problemi della storiografia che si è occupata di pubblica amministrazione, dello Stato, dei dibattiti parlamentari e della pubblicistica politica.
L’impianto del lavoro regge molto bene, perché sapientemente miscelato e molto efficace sul piano dello stile che restituisce profondità anche ai brandelli di vita del ceto impiegatizio. In realtà mi sembra che proprio lo stile dell’esposizione renda assai interessante questo libro e il lavoro che lo sostiene frutto appunto di una ricca analisi sulle pagine di Demetrio Pianelli e Regi impiegati di Emilio De Marchi (1888 e 1890), de Le resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi di Piero Jahier (1915), dell’Incendio al catasto di Carlo Montella (1956) e poi di una incisiva indagine su due pellicole di Mario Soldati, Le miserie del signor Travet (1946) e Policarpo ufficiale di scrittura (1959).
In conclusione il risultato che Zanni Rosiello presenta al lettore è articolato intorno ad alcuni «luoghi»: intanto la decostruzione della costante visione di una «immobilità antropologica» della burocrazia, che coincide con «l’uomo medio» – «irretito negli automatismi di meccanismi burocratici che gli fanno assumere comportamenti e dire parole simili a quelli di tanti altri impiegati» (p. 116) – di fronte ai cambiamenti, anche profondi, seppure la burocrazia non perda mai quella eccellenza nel «ridurre tutto il nuovo al già accaduto», per usare le parole dell’a. E poi la difficoltà del ceto impiegatizio ad affrancarsi dalla continua riproduzione dei caratteri, dei clichés, che sono centrati sulla pedante consuetudine a riprodurre gli stessi comportamenti anche attraverso l’utilizzo di un linguaggio astruso, ma auto-giustificatorio, per essere sempre un po’ weberiani.

Leonida Tedoldi