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I forti della grande guerra. Le opere italiane ed austriache protagoniste della Guerra dei forti 1915-1917

Leonardo Malatesta
Varese, Pietro Macchione, 580 pp., € 25,00

Anno di pubblicazione: 2015

Parlando di Grande guerra non si è portati a pensare subito ai forti. Grazie a Malatesta
questa apparente lacuna viene progressivamente colmata. Da oltre un decennio, infatti,
l’a. si occupa di questa particolare tematica, sviscerando in maniera molto puntuale
numerosi aspetti sull’argomento, sempre alla ricerca di nuove fonti.
Il sottotitolo del presente volume – tra l’altro seguito da ulteriori ricerche edite nel
2016 – ha per sottotitolo aggiuntivo: «Nel vivo dell’azione». In effetti, tale dicitura è molto
indicativa, visto che la narrazione abbraccia non solo l’aspetto prettamente materiale
delle fortificazioni; nel volume massima parte è concentrata infatti sulla vita delle truppe
all’interno degli avamposti e il relativo uso difensivo od offensivo nella cosiddetta «guerra
dei forti». È insomma una costante quella dell’a. di non limitarsi a un’indagine solo
tecnico-costruttiva, ma piuttosto di considerare il complesso degli avvenimenti che hanno
interessato i medesimi baluardi.
Tutto ovviamente parte dalla collocazione geografica dei forti, la cui progettazione
avviata ancora perdurante l’alleanza tra Roma e Vienna creava un sistema bellico che poteva
portare solo verso un conflitto tra i due paesi. Interessante valutare poi la caratterizzazione
delle zone prescelte: il cuneo trentino con le sue articolate vallate diveniva una regione
strategica. Il punto problematico era però «che le truppe italiane erano impreparate
all’offensiva, [e] mancavano dei mezzi necessari all’attacco» (p. 93). Si innescò quindi un
lento «conflitto di logoramento, dove vinse chi resistette più a lungo» (p. 527). In questo
non facilitò la scarsa attenzione per un adeguamento ricostruttivo di quanto usurato o
distrutto. Le priorità erano sovente altre e i comandi non ebbero l’interesse a sistemare un
cordone, che con l’andare dei mesi cambiò il proprio valore contenitivo.
Diverso discorso valeva invece per la zona dell’Isonzo. Qui l’impostazione difensivista
operata dal generale Pollio venne stravolta da Cadorna, che invece puntò tutto
sull’offensiva, derubricando il potenziale delle fortificazioni. Solo dopo la ritirata di Caporetto,
quelle del Tagliamento assolsero in parte il loro compito, anche se di fatto fino
ad allora abbandonate ebbero una limitata forza di contenimento, essendo prive di pezzi
d’artiglieria.
L’interrogativo con cui si chiude il volume è se i forti italiani, resistettero al tiro dei
grossi calibri avversari. Avendo letto il libro, la risposta è no (p. 533). I difetti delle fortificazioni
italiane erano infatti l’uso esclusivo di calcestruzzo e non di cemento armato,
oltre al fatto che molto spesso si badò più alla forma estetica, dando vita a costruzioni
destinate anche a uso abitativo. Il concetto di fortificazione conobbe una graduale e continua
parabola discendente. Nella seconda guerra mondiale l’uso delle opere di questo
tipo – esempio lampante fu il Vallo Atlantico – furono di fatto marginalizzate e destinate
a essere superate dal concetto dinamico di guerra.

 Giovanni Cecini