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Il ’77 tra storia e memoria

Alessio Gagliardi
Castel San Pietro Romano, Manifestolibri, 128 pp., € 12,00

Anno di pubblicazione: 2017

Allo scoccare del quarantesimo anniversario del movimento del 1977, Gagliardi ci
offre un primo bilancio critico e intelligente della storiografia sul tema. Il risultato è un
volume sintetico, ma denso. L’operazione di discutere la conoscenza scientifica disponibile
sul Settantasette – pur senza aggiungervi nuova indagine sulle fonti primarie – si rivela
intellettualmente onesta e concretamente utile. Da una parte, dimostra che il movimento
del 1977 interseca e solleva questioni cruciali per comprendere la storia italiana dell’ultimo
mezzo secolo; dall’altra, invita a fare una ricerca che dialoghi proficuamente con gli
studi esistenti.
Il volume si articola in otto capitoli tematici e prende le mosse dalla constatazione
che il Settantasette ha faticato a divenire un «fatto storico» e «fatica ancora ad assumere
una forma compiuta, dai contorni distinguibili» (pp. 9-10). La ricetta per superare questa
impasse – suggerisce l’a. – ha tre ingredienti: sottrarsi all’«atteggiamento possessivo» nei
confronti del passato da parte dei protagonisti (p. 13), pur senza violare il «sistema di
senso» di quell’epoca; restituire la natura poliforme di tale esperienza, evitando le reductio
ad unum; guardarsi dagli anacronismi interpretativi.
Sulla base delle ricerche pubblicate, l’a. fissa alcuni punti fermi che delineano i tratti
salienti del Settantasette. Anzitutto, quella stagione di rivolte sociali ebbe le caratteristiche
di un movimento; non fu semplice sommatoria di episodi di rottura. Inoltre, rappresentò
un’esperienza generazionale, avendo raccolto un segmento di giovani che si ritenevano,
prima di tutto, «non garantiti». Il movimento condivise altresì un’idea dello scontro politico
incentrata sull’«appropriazione immediata» (p. 24) e sull’affermazione dei desideri
«qui e ora». Il rifiuto dell’impegno per modificare gradualmente i rapporti di potere determinò
uno scarto rispetto ai canoni della sinistra, vecchia e nuova, e suscitò polemiche con
chiunque predicasse sacrifici e doveri. Inedita fu anche la qualità della violenza: non solo
per la sua accettazione diffusa, ma anche per il suo uso come strumento di soddisfazione
delle pulsioni e come forma di linguaggio. Dal crogiolo del Settantasette scaturirono manifestazioni
di creatività, sperimentazioni culturali e azioni ludiche. Eppure, ribadisce l’a.,
lungi dall’essere espressioni antitetiche alla violenza, furono a essa complementari.
Infine, l’enfasi sul personale, la rivendicazione di bisogni individuali e l’ammiccamento
ai piaceri del consumo, propri di alcuni settori del movimento, fecero intravedere
un ripiegamento nel privato e un rifiuto del collettivismo. Tuttavia – mette in guardia
motivatamente l’a. – segnalarono soprattutto una «radicale rimodulazione delle culture
politiche della sinistra» (p. 73) alla luce del mutato contesto sociale. Il Settantasette
andrebbe insomma letto come tentativo di contrastare il riflusso, accogliendo sensibilità
nuove e ridefinendo gli ambiti dell’agire politico. Come suggerisce la lettura del volume,
questa funzione di laboratorio delle idee e delle pratiche di contestazione rende il Settantasette
un terreno storiografico sempre stimolante.

Luca Falciola