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Il mais «miracoloso». Storia di un’innovazione tra politica, economia e religione

Emanuele Bernardi
Roma, Carocci, 199 pp., € 22,00

Anno di pubblicazione: 2014

In questo nuovo contributo, Emanuele Bernardi affronta un tema di grande interesse sul piano storiografico, finora trascurato in relazione al contesto italiano: la diffusione
e commercializzazione in Italia del mais ibrido, nel quadro iniziale del Piano Marshall e
della Mutual Security Agency. Strutturato in tre capitoli, il libro ha i suoi punti di forza
nei primi due, nei quali l’a., attraverso un importante scavo archivistico su fonti tanto
italiane quanto statunitensi, getta luce sulla figura di Luigi Fenaroli e sulla Stazione maidicola di Bergamo da lui diretta, e ricostruisce il ruolo di Luigi Gino Ligutti, direttore
della National Catholic Rural Life Conference. Ne emerge un lavoro che finalmente pone
l’agricoltura al centro della storia della guerra fredda in Italia, disegnando un affresco
politicamente, socialmente ed economicamente frastagliato.
Per uno studio senz’altro originale rispetto al panorama storiografico italiano, i rilievi critici corrispondono evidentemente ad altrettanti inviti ad approfondire la ricerca e ad
ampliare il ventaglio delle metodologie adottate. Da questo punto di vista, due elementi
meritano di essere particolarmente sottolineati.
In primo luogo, Il mais «miracoloso» risente della divisione disciplinare – tutta italiana – tra storia contemporanea e storia della scienza e della tecnologia, finendo per tratteggiare un quadro politico-istituzionale all’interno del quale, tuttavia, l’oggetto specifico
– ovvero l’organismo biotecnologico al centro delle negoziazioni transnazionali – appare
spesso «vuoto», decontestualizzato. Per portarlo pienamente in primo piano, occorrerebbe
connettere la dimensione politico-istituzionale a quella scientifico-accademica, indagando
le traiettorie della genetica agraria nel secondo dopoguerra, i suoi attori, i conflitti interni,
le strategie disciplinari, le differenti politiche di ricerca, i diversi modelli di modernizzazione. Chi erano gli attori coinvolti nell’ambito della cosiddetta «genetica» agraria negli
anni ’50? Quali erano le loro competenze specifiche, i loro approcci epistemologici, le
loro connessioni internazionali? E come tutto questo interagì con le vicende del mais ibrido statunitense? Rispondere a questi interrogativi consentirebbe di chiarire le profonde
differenze, pur nel medesimo contesto, tra il caso italiano e quello francese.
Il secondo elemento critico riguarda l’ultimo capitolo del libro, forse il più fragile.
Citando Sheila Jasanoff, Bernardi giustamente sottolinea gli aspetti di continuità tra la
storia del mais ibrido e i recenti dibattiti sugli Ogm. Ma la continuità può emergere
soltanto evidenziando, per contro, la frattura prodotta dall’introduzione delle tecnologie
del Dna ricombinante negli anni ’70. Questo aspetto è trattato in misura molto parziale nell’ultimo capitolo, tutto schiacciato su una posizione tesa a stigmatizzare gli Ogm
come «una risposta storicamente arretrata» (p. 177) ai problemi dell’agricoltura italiana.
Un giudizio tranchant e ideologico, a mio parere, che rischia di distorcere le importanti
acquisizioni contenute nella prima parte del libro

Francesco Cassata