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Il nazismo e l’Antichità

Johann Chapoutot
Torino, Einaudi, 523 pp., € 34,00 (ed. or. Paris, Puf, 2012, traduzione di Valeria Zini)

Anno di pubblicazione: 2017

Tradotto da Einaudi a cinque anni dalla pubblicazione in Francia, il volume permette
al lettore italiano di familiarizzare con il tassello inaugurale della vasta produzione di
Johann Chapoutot (la sua thèse d’état) e con l’interrogativo che lo ha portato a occuparsi,
all’inizio di una rapida e brillante carriera, del Terzo Reich. Dietro l’intenzione di indagare
i rapporti tra il nazismo e l’antichità greco-romana, non c’è soltanto la constatazione di
una lacuna storiografica, da colmare attraverso un lavoro di scavo tra fonti molto diverse
tra loro e di non semplice accostamento. C’è anche l’idea che il modo di riferirsi ai
secoli trascorsi testimoni della particolare natura della concezione del tempo professata
dallo Stato nazista; un tempo astorico, in quanto mitico e ciclico, in cui non si tendeva a
«stabilire una filiazione» quanto, piuttosto, ad «affermare una paternità» (p. 7): quella del
presente (il popolo tedesco) sul passato (i greci e i romani), in nome di una vittoria nel
futuro e della conquista dell’eternità.
Il libro è diviso in tre sezioni, nei cui titoli riecheggiano le forme di relazione che il
nazismo intrattenne con la civiltà e con la storia greco-romane: l’assoggettamento (L’annessione
dell’Antichità), la riproduzione (L’imitazione dell’Antichità) e l’analogia (L’eco
dell’Antichità). Come ne La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti (ed. or. Paris, 2014),
l’a. si contraddistingue per la capacità di spaziare tra i differenti medium con cui l’antichità
venne rimaneggiata, distorta e usata, a partire da un modello elaborato nel tardo ’800
che la Nsdap approfondì e dotò di inedite inflessioni razziali: accanto alle pagine dedicate
agli antichisti e alla questione delle origini – ove vengono prese in considerazione tanto la
tesi hitleriana di una comune razza nordica diversificatasi in base alle differenze climatiche,
quanto le argomentazioni autoctone di Himmler – si segnalano quelle riservate alle
visioni e all’insegnamento della storia, alla filosofia, al cinema, alle Olimpiadi e allo sport,
ai numerosi aspetti in cui è possibile articolare, in sintesi, la costruzione fisica e morale
dell’uomo nuovo, di cui i corpi muscolosi scolpiti nella pietra rappresentarono un exemplum
e le fattezze degeneri dell’ebreo l’antiesempio.
Muovendosi con abilità tra campi disciplinari e registri comunicativi differenti, Chapoutot
mette in risalto la pervasività dell’antico, che il regime trasferì dal piano ideologico
all’ambito militare e applicò, nei tragici mesi della catastrofe, persino alla «coreografia della
fine». Fedele alla promessa che non vi sarebbe più stata una sconfitta disonorevole come
quella del 1918, di fronte all’impossibilità di vincere il conflitto e di portare a termine
l’edificazione dell’impero, Hitler e i suoi gerarchi non esitarono ad affidarsi alla grandiosità
di una disfatta totale e al fascino di un’estetica delle rovine, che avrebbero dovuto
perpetuare il ricordo del Reich, stimolarne l’emulazione e assicurare una sua rinascita,
in una spirale di autodistruttività fondata sull’incapacità di confrontarsi col limite e sulla
proiezione, utopica, nel futuro.

Maddalena Carli