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Il XX secolo sul red carpet. Politica, economia e cultura nei festival internazionali del cinema (1932-1976)

Stefano Pisu
Milano, FrancoAngeli, 320 pp., € 36,00

Anno di pubblicazione: 2016

L’analisi dei festival che si sono svolti tra gli anni ’30 e gli anni ’70, proposta in relazione alla storia internazionale, può indurre a un approccio storiografico estremamente interessante e innovativo. Utilizzando una vasta gamma di fonti documentarie e sforzandosi di non limitare la propria indagine alla ricostruzione delle iniziative, l’a. individua alcune questioni nodali: dalla negoziazione complessa, alla base dell’esistenza e della evoluzione delle diverse manifestazioni, ai processi di globalizzazione e diversificazione che queste conobbero nel corso dei cinque decenni considerati.
Non ultimo Pisu si sofferma con grande attenzione sulla trasformazione, iniziata negli anni ’50, della forma organizzativa dei festival: dalla egemonia dei poteri economici e politici tradizionali al coinvolgimento delle élite di natura culturale e artistica, che ne allargarono definitivamente gli orizzonti, e al contemporaneo superamento degli ambiti dell’Europa per raggiungere il Sud America e il Sud-est Asiatico, infine, negli anni ’60, l’Africa.
Accanto ai caratteri di «vetrina» culturale, messa a disposizione dai festival ai paesi partecipanti, va rammentato che il cinema ha sempre rappresentato contesti sociali e politici nazionali molto precisi. Esso vive cioè uno strettissimo legame linguistico con la comunicazione politica, ovvero con il sistema della cosiddetta «propaganda», intesa non tanto come veicolazione forzata di contenuti quanto come momento di mediazione e semplificazione dei messaggi che le strutture di potere realizzano e indirizzano alle società in cui dominano e agiscono. Come non rammentare la definizione del cinema come «l’arma più forte», coniata mentre il festival di Venezia si istituzionalizza e fissata nella memoria collettiva dal fascismo (ma espunta dai Dizionari delle «affermazioni del Duce»!).
Tutto ciò avviene negli anni ’30 e ’40 (e dopo), non solo in Europa. Pensiamo (è un esempio tra i tanti) alle cinematografie nazionali negli anni delle guerre fasciste e del secondo conflitto mondiale, ma al tempo stesso all’ampia produzione cinematografica su quel periodo, presente nei programmi dei festival succedutisi dal dopoguerra ai giorni nostri, che ha scelto quella fase storica come protagonista o, più semplicemente, fondale non occasionale.
È questo un aspetto non pienamente sviluppato dal saggio, che pur nomina quei titoli, ma che ci saremmo aspettati di vedere approfondito proprio in ragione dell’assunto che la vicenda dei vari festival può offrire uno sguardo nuovo e più ricco sulle relazioni internazionali. Parimenti, ci è apparso talvolta un po’ frettoloso il modo in cui è stata affrontata l’evoluzione degli aspetti economici, politici, culturali e istituzionali in rapporto al quadro storico generale. È una debolezza che può sminuire la portata innovativa della metodologia scelta, fatta di contaminazioni disciplinari e della rinuncia a rigidi steccati accademici: un percorso che produce sempre risultati importanti e offre stimoli rilevanti per la ricerca.

Adolfo Mignemi