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Istituzioni, legislazione e amministrazione penitenziaria nella Sicilia borbonica (1830-1845)

Simona Fazio
Soveria Mannelli, Rubbettino, 178 pp., € 14,00

Anno di pubblicazione: 2016

Il volume si inserisce in un filone di ricerca non affollato, quello sulle istituzioni
penitenziarie nell’Italia preunitaria, contribuendo con un caso studio di ambito spaziale
e cronologico ben circoscritto. Arricchita da una Bibliografia finale e da Appendici documentarie,
l’indagine valorizza fonti d’archivio spesso di non agevole consultazione e
adotta un’impostazione top down che, seguendo l’approccio di storia delle istituzioni nel
cui ambito con sensibilità comparativa il lavoro si colloca, ricostruisce l’evoluzione della
politica penitenziaria del governo di Napoli e il suo impatto in quanto processo di modernizzazione
sulle realtà amministrative e logistiche della Sicilia.
Retrocedendo al 1819, anno di pubblicazione del Codice penale per il Regno delle
Due Sicilie che recepiva il dibattito tardo-settecentesco sulla «proporzione» e la «precisione
» della pena (p. 17 ss.), l’a. evidenzia lo iato esistente tra teoria e prassi in materia
carceraria nella realtà siciliana, di cui ripercorre l’articolata geografia e tipologia – inclusiva
dei terribili bagni penali –, 197 strutture in totale, esito di assenza di pianificazione
e della sopravvivenza di strutture feudali quali i dammusi, «orrenda appendice, quasi una
metastasi, dell’universo carcerario siciliano» (p. 43) che già nel 1785 si era tentato di
abolire. La storia di uomini e istituzioni coinvolti nello sforzo normativo, gestionale e architettonico
del cambiamento finisce per dar conto del gap esistente tra centro e periferia,
dove per centro si intende un modello concepito a Napoli di non facile applicazione tra
le resistenze e le specificità del «percorso palermitano» (p. 53 ss.).
Di particolare interesse risulta il salto qualitativo avvenuto attraverso la sostituzione
dell’approccio filantropico-assistenziale di antico regime – incarnato con arbitrarietà dalla
Deputazione di Santa Maria Visita Carceri – con la gestione della Soprintendenza alle
Grandi Prigioni centrali: un vero e proprio braccio di ferro tra il modernizzante governo
di Napoli sostenuto dall’emergente borghesia siciliana e l’aristocrazia insulare in fase di
indebolimento (p. 83 ss.). Significative in questo senso anche le tappe verso la costruzione
di un nuovo carcere a Palermo, l’Ucciardone, per sostituire la Vicaria ormai fatiscente: lo
spartiacque per condurre la Sicilia dalla vecchia alla nuova epoca carceraria, «o almeno
a un suo tentativo» (p. 129). Una storia davvero tormentata, che nel 1851 la lettera di
Lord Gladstone a Lord Aberdeen avrebbe messo al centro della sua strategica denuncia
mediatica.
Si vorrebbe talvolta sentire di più il punto di vista degli oggetti ultimi della politica
carceraria in Sicilia, i carcerati, appunto, la cui voce giunge soprattutto in chiusura del
volume grazie alle memorie di un giovane patriota palermitano per gli anni terminali del
Regno. Il loro universo illetterato poteva forse essere recuperato attraverso le richieste di
grazia. Ma questa sarebbe stata un’altra ricerca.

Arianna Arisi Rota