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Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta

Hubert Heyriès
Bologna, il Mulino, 348 pp., € 25,00

Anno di pubblicazione: 2016

Impostata all’insegna dell’ossimoro scelto per il sottotitolo, questa storia della prima
guerra dell’Italia unita ne rivisita le specificità tenendo assieme la dimensione militare
e la dimensione della memoria, anche quella a caldo. Viene così proposto al lettore, sia
all’esperto che al semplice appassionato del tema, un percorso che volentieri si intrattiene
sui luoghi comuni che hanno precocemente caratterizzato il discorso su quella guerra, rivisitandoli
alla luce di una ricca bibliografia e di una documentazione archivistica inclusiva
delle fonti dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito e di quello della Marina
Militare.
Il quadro che emerge dal volume è quello di ciò che avrebbe potuto essere, e non
fu: a partire dal primo capitolo panoramico, nel quale l’alleanza dell’Italia con la Prussia
viene spiegata come un fatto tutt’altro che scontato, stante anche la non piena fiducia
della classe dirigente italiana nelle capacità militari della Prussia (p. 51 e 56), la ricostruzione
si impernia sullo iato tra le autorappresentazioni dello scontro militare e la fragilità
delle forze armate di un paese giovane, nel quale il ricambio generazionale degli ufficiali,
ma anche l’amalgama e il coordinamento degli uomini al comando, non avevano ancora
avuto modo di compiersi.
Tra pregiudizi e complessi di superiorità, la guerra dichiarata all’Austria il 20 giugno
1866 fu così il banco di prova per un «esercito di massa» (p. 67), oltre 215.000 uomini,
concentrati nella tenaglia tra il Mincio e il Po per quella che, in continuità con il 1859,
venne subito dipinta come una guerra «giusta e necessaria» (p. 79), guerra preventiva e
vittoriosa. E invece, dati alla mano, l’a. racconta soprattutto di cattivo equipaggiamento,
di faticose marce, di fame e caldo in pianura, di freddo in montagna, nemici che tanto avvicinano
questo conflitto ottocentesco al conflitto mondiale che la generazione successiva
avrebbe sperimentato, anch’essa spinta dall’illusione in una guerra breve e risolutrice.
I capitoli IV, V e VI, quelli che ci trasportano nella guerra sui teatri di battaglia, rompono
l’illusione che fu dei contemporanei, certi di un rapido successo: fraintendimenti,
impreparazione, iniziative non concordate, errori di sottovalutazione si susseguirono per
terra e per mare accelerando quell’insieme di variabili che fecero di Custoza e Lissa due
luoghi/mito negativi, capostipiti di una genealogia della «vergogna» militare destinati a
essere seguiti da Adua e Caporetto, oggetto di complicati equilibrismi della memoria
individuale e collettiva. Come infatti ben illustrano il capitolo VIII e soprattutto il IX, la
memoria dovrà transitare dalla fase del rifiuto/rimozione (inclusiva di un’ondata di acceso
antimilitarismo quale emerge ad esempio dalle pagine di Una nobile follia di Tarchetti), a
quella della catarsi, per approdare, molto lentamente, a una «neutralizzazione» memoriale
(p. 223 ss.) nella quale resisterà la pagina della gloria garibaldina a Bezzecca e troverà
posto persino una tardiva rimonumentalizzazione di Custoza nel 1990.

 Arianna Arisi Rota