Cerca

l banchiere del mondo. Eugene Robert Black e l’ascesa della cultura dello sviluppo in Italia

Giovanni Farese, Paolo Savona
Soveria Mannelli, Rubbettino, XVIII-170 pp., € 15,00

Anno di pubblicazione: 2014

Secondo Lytton Strachey, capostipite della moderna biografia, due sono gli obblighi del biografo: la brevità e la distanza dal soggetto. Gli autori di questa biografia di Eugene Black, presidente della Banca mondiale tra il 1949 e il 1963, hanno rispettato il primo principio ma disatteso il secondo: Farese e Savona sono innamorati di Black, la cui vita viene scandita in tre capitoli attraverso la metafora della semina, della fioritura e del raccolto.
La figura di Black è importante per diversi motivi. Uno, di natura generale, è che sotto la sua guida la Banca divenne un attore di prima grandezza nello scenario internazionale. Inoltre, Black fu un convinto sostenitore del programma di investimenti della Cassa per il Mezzogiorno, concedendo all’Italia sette prestiti tra il 1951 e il 1959. Farese e Savona sottolineano giustamente che l’esperienza italiana debba essere analizzata in una prospettiva internazionale e utilizzano la figura di Black come tramite tra le due dimensioni.
Se questa prospettiva è ampiamente condivisibile, l’entusiasmo agiografico degli autori non permette un’analisi delle dinamiche spesso conflittuali interne alla Banca e nei rapporti tra Banca e paesi membri. L’impressione è di una grande armonia tra gli attori coinvolti, ma questo è lontano dal vero ed è, a mio parere, il problema principale di questo volume. Farese e Savona, per esempio, scrivono che «Black è la Banca. Ma la Banca è anche i suoi economisti», tra cui Paul Rosenstein-Rodan, un pioniere dello sviluppo, prima vicedirettore dell’Economic Department e poi capo dell’Economic Advisory Staff. Che i rapporti personali tra Rosenstein-Rodan e Black fossero buoni è vero, ma il racconto omette di notare che Black decise la chiusura e lo smembramento dell’Economic Department, e che l’Economic Advisory Staff che ne prese il posto fu escluso dalla catena decisionale e ridotto a un mero ruolo consultivo. Rosenstein-Rodan se ne andò poco dopo, pieno di risentimento. Oppure sottolineano l’entusiasmo di David Lilienthal, fondatore della Tennesse Valley Authority, per la Cassa per il Mezzogiorno, ma non riportano che all’epoca Lilienthal era un consulente privato e che la consulenza finì molto male, con reciproche recriminazioni. O ancora, sostengono che Black promosse la creazione della International Development Association, l’agenzia della Banca Mondiale che eroga prestiti ai paesi più poveri, quando in realtà osteggiò l’idea con forza, decidendo di farla propria solo obtorto collo.
Viene da pensare che gli aa. non fossero tanto interessati a ricostruire il dibattito sullo sviluppo che ebbe luogo negli anni ’50, quanto a ribadire un punto di natura istituzionale: i mercati sono meccanismi complessi che richiedono una continua regolazione e manutenzione, e i processi di crescita in una cornice democratica si possono comprendere solo guardando in prospettiva storica all’interazione virtuosa tra istituzioni economiche, individui, teorie e ideologie. Questo punto si svela nelle conclusioni, che sono non a caso tra le pagine più interessanti del volume.

Michele Alacevich