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La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato

Anna Bravo
Roma-Bari, Laterza, 245 pp., € 16,00

Anno di pubblicazione: 2013

Tra i protagonisti di questo libro vi sono figure note e meno note, come la torinese
Rosa S. che dopo l’8 settembre ’43 salvò la vita a centinaia di militari sbandati ed ex
prigionieri alleati. «Rosa li fa dormire nelle cantine dell’edificio, li sveste, li riveste. Alla
fine li accompagna alla stazione, li bacia, li abbraccia, li mette sui carri» (p. 99). Come lei,
tanti altri. Se infatti il ’900 è stato il secolo più insanguinato della storia umana, il «secolo
dell’odio», a rischiararlo sono giunte scelte di opposizione al male di profonda importanza.
Anna Bravo ha selezionato alcune di queste vicende e le ha raccolte in sette capitoli.
Non è una storia organica della nonviolenza, giacché «la genealogia della nonviolenza e
quella del sangue risparmiato coincidono solo in parte. La prima conta grandi maestri,
grandi lotte, azioni esemplari. La seconda è intermittente, sparsa, senza un’organizzazione
alle spalle» (p. 13). Così i combattenti della Grande guerra protagonisti delle «tregue di
Natale», o che solidarizzarono con il nemico. Dipinta come viltà, punita con la morte,
la scelta di preservare tratti di umanità nell’abisso delle trincee viene valorizzata (cap. 2),
al pari della «resistenza civile» dei norvegesi e dei danesi durante l’occupazione nazista.
E quella italiana. Secondo la Bravo dopo l’8 settembre si è avuta «la più grande operazione
di travestimento e salvataggio della storia italiana, in ordine sparso e in spirito non
violento: né armi né scontri fisici, ma capacità di simulare, confondere le carte in tavola,
per risparmiare il sangue» (p. 96). La storiografia prevalente ha però sempre preferito la
resistenza armata. Il capitolo sulla Danimarca illumina un esperimento di finta collaborazione,
apparentemente amichevole ma nei fatti radicalmente oppositiva: «Per la resistenza
danese la priorità non è provocare il massimo di perdite umane ai tedeschi, è limitare la
sofferenza delle popolazioni, salvare quante più vite possibili, mentre si lavora perché l’ex
protettorato modello diventi sempre più impraticabile a nazisti e pronazisti» (p. 148). Il
terzo capitolo ripercorre l’itinerario di Gandhi, il sesto quello di Rugova, l’ultimo quello
del Dalai Lama. Se l’indipendenza del subcontinente indiano rappresenta il successo
della nonviolenza, le vicende del Kosovo e del Tibet, considerate fallimentari, andrebbero
ricomprese. Perché ci si è «affrettati a decretare la sconfitta dell’esperimento kosovaro?
Un successo della nonviolenza avrebbe incrinato la visione del mondo secondo cui solo
la violenza può contrastare la violenza; l’insuccesso l’ha rafforzata, esimendoci dalla fatica
di cercare altre strade» (p. 192). La conta dei salvati si fonda su un’ampia bibliografia.
La collocazione delle azioni nonviolente negli scenari storici e geopolitici è sintetica ma
esauriente. La scrittura è incisiva, gli esempi scelti pregnanti, le motivazioni etiche forti.
E realistiche, giacché ricerche e dati mostrano come le azioni nonviolente di contrasto
a regimi, occupazioni, ingiustizie, abbiano ottenuto nel ’900 successi ben maggiori di
quelle armate.

Stefano Picciaredda