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La democrazia distributiva

Loreto Di Nucci
Bologna, il Mulino, 216 pp., € 21,00

Anno di pubblicazione: 2016

Si tratta, sostanzialmente, di un profilo di storia dell’Italia repubblicana, il cui sistema politico è interpretato sulla base di un asse caratterizzato, fin dalla caduta del fascismo e dalla Costituente, dalla centralità dei partiti (ma l’art. 49 della Costituzione non è mai stato seriamente applicato), dalla debolezza dell’esecutivo, dall’impossibilità di alternanza e, soprattutto, dalla «centralità dello Stato sociale» (p. 8), ai fini, in primo luogo, dell’acquisizione del consenso, in un paese caratterizzato a lungo da una disoccupazione strutturale, da una notevole conflittualità sociale e dalla presenza di un forte Partito comunista.
Nell’ottica dell’a. (che si rifà esplicitamente ai numerosi interventi sul tema, nell’ultimo periodo della sua vita, di Cafagna) quello italiano è un «particolare modello di Stato sociale», sostanzialmente non universalistico, in buona parte consociativo (proprio per la mancanza di alternanza) e quindi fondato su un’«irresponsabilità politica» tramutatasi in breve in «irresponsabilità finanziaria» e su meccanismi non di redistribuzione, ma di distribuzione e quindi di inefficienza, spreco di risorse pubbliche (e conseguente indebitamento) e corruzione (pp. 11-13). Un sistema sostanzialmente crollato nel periodo 1989-1992 per il combinato disposto della fine della guerra fredda, di Tangentopoli e degli effetti degli accordi di Maastricht (nella seconda parte il libro diventa essenzialmente, con qualche ripetizione, una descrizione degli avvenimenti politici di questi ultimi 25 anni).
Il quadro delineato da Di Nucci non manca di consistenti elementi di verità ma, pure, appare troppo semplificato nelle sue linee interpretative e di periodizzazione interna. Solo per restare ai costi del sistema, nulla si dice, ad esempio, di quanto abbiano inciso le rimesse (sotto forma di incentivi, sgravi, finanziamenti a fondo perduto, ecc.) su un sistema imprenditoriale basato sulla piccola e media impresa, arretrato tecnologicamente e scarsamente innovativo. Probabilmente ciò dipende dal tipo di fonti utilizzate, in primis di natura storico-politologica. Mi permetto quindi di suggerire, per un quadro più ampio, la lettura in parallelo di qualche testo di storia dell’economia, come ad es. quello assai documentato di Emanuele Felice (Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, il Mulino, 2015) grazie al quale, senza contraddire gli assunti di fondo del libro di Di Nucci, possiamo apprendere che «dal 1968 al 1982 la quota di persone povere passa dal 20 al 3,6%, in numeri assoluti i poveri crollano da 11 a 2 milioni» (p. 77) o che «dal 1948 al 1973 il reddito medio si era moltiplicato per 4; contemporaneamente il Sud era riuscito a accorciare le distanze con il resto del paese; la speranza di vita alla nascita era salita da 65 a 72 anni, il tasso di analfabetismo era crollato dal 14 al 6%» (pp. 253-254). Forse la conclusione sta quindi nelle parole del mai troppo rimpianto Tony Judt: «i dilemmi e le carenze dello stato sociale sono in larghissima misura il risultato non tanto di incoerenza economica quanto di pusillanimità politica» (Guasto è il mondo, Laterza, 2011).

Giovanni Scirocco