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La guerra in testa. Esperienze e traumi di civili, profughi e soldati nel manicomio di Pergine Valsugana (1909-1924)

Anna Grillini
Bologna, il Mulino, 227 pp., € 21,00

Anno di pubblicazione: 2018

Il volume conclude un percorso euristico inaugurato nel 2013 e diretto a colma- re una lacuna: l’assenza di studi dedicati alla Grande guerra e ai suoi lasciti psichiatrici nell’ambiente trentino. L’obiettivo dell’indagine, duplice e complementare, mira sia ad analizzare le ripercussioni dei traumi bellici sùbiti non solo dai soldati ma anche dalle popolazioni civili (in particolare dalla componente femminile); sia a comprendere le problematiche esistenziali di queste popolazioni allorché furono costrette a vivere in un territorio direttamente sconvolto dalle operazioni belliche. In questo senso, oltre alla trincea e alla prigionia, classici campi d’indagine, sono esperienze meno indagate come il lavoro coatto, il profugato, e il fardello della soffocante presenza militare a rappresentare gli scenari di studio accuratamente privilegiati.
Con ciclica regolarità, il tema della peculiare plurinazionalità dell’area ritorna nella narrazione. Plurinazionalità a cui non sono estranee né le forme relazionali che tendevano a instaurarsi tra pazienti e medici accomunati da una medesima cultura, con vantaggio dell’azione terapeutica; né la fondazione stessa dell’asilo di confine di Pergine nel 1882, edificato dalle autorità asburgiche, dopo anni di richieste deluse, per soddisfare le esigenze degli italiani ed evitare loro la faticosa e spesso improba – per questioni linguistiche – trasferta verso l’asilo di Hall nel Tirolo.
Nelle mani dell’a., almeno fino alla drammatica evacuazione ordinata dai comandi militari nel 1916 e dalla quale il 65 per cento dei folli ricoverati non farà ritorno, il manicomio diviene la piattaforma da cui avanzare un doppio sguardo analitico: sulla vita inter- na dell’istituto, e sulle vicende della società in cui esso opera, e di cui riflette singolarmente le dinamiche. Nel primo caso, facciamo i conti con l’abituale storia di troppi manicomi pubblici: cronico sovraffollamento dei reparti, scarsi mezzi terapuetici, diffuse patologie della miseria; e durante il conflitto denutrizione, fame e sostanziale misconoscimento del ruolo patogenetico della guerra. Nel secondo caso, invece, e in particolare dopo il 1919, osserviamo le difficoltà di una transizione istituzionale che muta i precedenti rapporti di forza tra italiani e austriaci, ora capovolti, e si misura con la progressiva sostituzione del personale manicomiale sulla base del criterio dell’appartenenza etno-nazionale.
Le pagine dedicate alla questione «del ritorno», dall’a. sviscerata nell’affascinante dimensione comunitaria, sono sicuramente tra le più innovative proposte dalla storiografia degli ultimi anni. D’altro canto, la nozione poco dinamica di identità nazionale assunta, minaccia di irrigidire quelle relazioni meticce, che analisi de-epicizzate del nazionalismo hanno ritrovato annidate nell’esperienza quotidiana degli individui e delle loro famiglie, folli inclusi.

Andrea Scartabellati