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La libertà di stampa è tutto. Mario Borsa, cinquant’anni di giornalismo democratico

Alessandra De Nicola
Soveria Mannelli, Rubbettino, 360 pp., € 19,00

Anno di pubblicazione: 2016

Mario Borsa (1870-1952) è noto soprattutto per il ruolo che svolse dopo la Liberazione alla guida del «Corriere della Sera» (uscito dal maggio 1945 al maggio 1946 come «Corriere d’Informazione», poi con la sua testata storica) per circa quindici mesi. In particolare si ricorda l’impegno a favore della Repubblica profuso allora dal quotidiano di via Solferino in occasione del referendum istituzionale, proprio su impulso di Borsa. Allo stesso modo il conflitto con la proprietà del giornale (vale a dire la famiglia Crespi), che indusse il direttore a dimettersi il 5 agosto del 1946, è interpretato come un’avvisaglia della restaurazione moderata che andava affermandosi dopo la stagione della Resistenza. Tutto questo è vero, ma è anche troppo poco.
Così, nota giustamente Alessandra De Nicola nella sua ricca (ma non sempre precisa) biografia, si finisce per far «apparire Borsa come una meteora ritrovatasi quasi accidentalmente a una direzione importante» (p. 22). Invece era una personalità di grande spessore culturale, oltre che di salda dirittura morale. E può sembrare un paradosso che il suo nome sia legato indissolubilmente al «Corriere della Sera», in quanto la sua precedente esperienza giornalistica si era svolta quasi tutta al «Secolo», giornale che a Milano era il diretto concorrente della testata diretta da Luigi Albertini. D’altronde Borsa professava sin da ragazzo, anche per la vicinanza personale a Filippo Turati e Anna Kuliscioff, idee democratiche molto più a sinistra del liberalismo piuttosto conservatore, per quanto moderno e illuminato, di cui era portavoce il «Corriere». In ben maggiore sintonia con il suo orientamento era appunto il radicalismo del «Secolo», per il quale fu dal 1898 corrispondente a Londra, poi caporedattore dal 1911 al 1918, quindi firma di punta (ma progressivamente emarginata) fino al 1923.
Nato in una cascina della campagna lombarda, Borsa era curioso del mondo e maturò nel soggiorno inglese un forte attaccamento alle istituzioni rappresentative e alla libertà di stampa. Era anche per vocazione un antimilitarista, ma finì per caldeggiare l’intervento dell’Italia nella Grande guerra contro le mire imperiali della Germania e dell’Austria-Ungheria, registrando così una prima «convergenza», per molti versi «strana» (p. 153), con il rivale Albertini. Più tardi sarebbero stati entrambi avversari delle camicie nere e Borsa, fuoriuscito dal «Secolo» caduto sotto l’influenza fascista, avrebbe trovato un provvisorio rifugio al «Corriere», destinato anch’esso a capitolare. Quindi, non più giovane e perseguitato, si sarebbe guadagnato il pane sotto il regime grazie al lavoro di corrispondente per il «Times» di Londra, modello a cui Albertini si era sempre ispirato. Dunque il paradosso non è affatto tale: in tempi funestati da despoti che facevano strame dei diritti, due uomini legati ai valori della civiltà liberale, anche se su posizioni politiche divergenti, erano destinati a incontrarsi nella stessa trincea. E non ci fu davvero nulla di strano se Borsa nel 1945 andò a occupare il ruolo che così a lungo era stato di Albertini.

Antonio Carioti