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La moltitudine apolitica. Culture politiche e voto alle masse in età giolittiana (1904-1913)

Marco Pignotti
Milano, Le Monnier, 302 pp., € 24,00

Anno di pubblicazione: 2017

Nel 1913 vennero iscritti alle liste elettorali quasi nove milioni di uomini italiani; nel 1909, in occasione delle precedenti elezioni politiche, gli elettori erano stati computati in poco più di tre milioni. L’Italia superava la Francia e la Gran Bretagna nel rapporto tra elettori e abitanti e diveniva, di colpo, il sesto paese al mondo secondo questa relazione. La spaccatura lamentata da molti osservatori tra paese legale e paese reale aveva subìto un opportuno restauro? Il volume di Pignotti ripercorre la strada della riforma elettorale mostrando quanto fu controversa la sua approvazione. Non erano poche le voci contrarie che avanzavano argomenti diversi per reclamare cautela. Venivano ammessi al voto uomini adulti in un paese che non aveva sanato un consistente tasso di analfabetismo. Si potevano registrare richiami a una gradualità che si può sintetizzare in «prima l’istruzione poi il voto» fino alla vera e propria ostilità di «elevazione» alla cittadinanza di una moltitudine priva degli strumenti ritenuti essenziali. E l’ostilità, spesso, si mescolava al disprezzo per quel nucleo di ammessi al voto che agli occhi di molti conservatori rimaneva folla indistinta e disomogenea e che meritava, nelle argomentazioni più corrosive, titoli che andavano da «plebe» a «teppa». Anche nello schieramento progressista, nonché tra alcuni esponenti socialisti, si riscontravano timori.
Tra gli aspetti ben messi in rilievo dall’a., che ha passato in rassegna pronunciamenti politici, articoli e fonti documentarie, mi sembra necessario evidenziare la ricostruzione delle posizioni sul potenziale mutamento di composizione dei deputati. Dietro le argomentazioni di alcuni scettici che non ritenevano appropriati i tempi di immissione di un così ampio numero di nuovi elettori, si celava malamente il dubbio che si potesse rivoluzionare così la natura largamente notabilare di quel corpo. In realtà quella radice non era tanto piantata nel terreno della ristrettezza elettorale, quanto nel sistema uninominale, che faceva dei candidati i campioni degli interessi territoriali. Se nel 1882 l’antidoto allo scrutinio di lista era stato il trasformismo, il potenziale veleno che rischiava di ridurre la funzione notabilare trovava la sua cura nel mantenimento del sistema uninominale. Non venne così intaccato il primato delle istanze locali rispetto a quelle di carattere nazionale. Pignotti calcola che il ricambio di parlamentari fu meno alto di quanto paventato. A parte i 65 parlamentari che non avevano ripresentato candidature, i nuovi eletti risultarono 146, cioè il 29 per cento del numero complessivo, solamente il 5 per cento in più del ricambio che si era verificato nelle elezioni del 1909.
Pur nel progresso elettorale socialista si era «salvata» quella aggregazione di deputati lontana, per mentalità e interesse, dalla moderna forma partito, una condizione vantaggiosa per i singoli notabili eletti ma che, a breve, avrebbe logorato il mondo politico liberale.

Marco De Nicolò