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La psichiatria di guerra. Dal fascismo alla seconda guerra mondiale

Paolo Giovannini
Milano, Unicopli, 2015, 165 pp., € 13,00

Anno di pubblicazione: 2016

Oltre duemila titoli in vent’anni. Basta consultare la Bibliografia della storia della
psichiatria italiana, 1991-2010 di Matteo Fiorani – scaricabile gratuitamente dal sito
della Firenze University Press – per disporre di un quadro articolato ed esaustivo di quello
che è ormai un fiorente campo di studi, cui hanno contribuito negli ultimi anni figure
professionali differenti – storici contemporaneisti e modernisti, storici sociali e delle idee,
storici della medicina e della sanità, filosofi, psichiatri e medici, senza contare l’ingente
letteratura di testimonianze e memorie di pazienti, amministratori e operatori sanitari.
In questo quadro, uno dei temi più esplorati è stato indubbiamente quello della
«psichiatria di guerra», con particolare riferimento all’impatto dei conflitti del ’900 sul
controllo della malattia mentale, sull’organizzazione degli istituti psichiatrici e sulla stessa
strutturazione della psichiatria come disciplina scientifica autonoma. Nonostante la netta
prevalenza delle analisi dedicate alla prima guerra mondiale, negli ultimi anni anche il
secondo conflitto mondiale ha fatto timidamente il suo ingresso nell’orizzonte degli studi,
a partire da quelli di Paolo Francesco Peloso e Massimo Tornabene.
In questo volume, che sistematizza una serie di contributi pubblicati dal 2006, l’a.
affronta il rapporto tra psichiatria ed evento bellico, focalizzando l’attenzione soprattutto
sulle riviste del settore, in un arco temporale compreso tra vigilia del conflitto e primi
anni ’50. A unificare i saggi – dedicati tanto alle strutture e agli spazi manicomiali quanto
ai diversi attori sociali coinvolti (malati, militari, prigionieri, civili) – è la costante riflessione
sul rapporto di continuità e discontinuità tra 1940-1950 e l’esperienza cruciale e
fondativa della Grande guerra. Gli elementi di continuità sono quelli più prevedibili: la
guerra come laboratorio per la psichiatria e fondamentale occasione per rivendicarne e
rafforzarne l’autonomia scientifica; i persistenti casi di simulazione; l’insistenza sul «fattore
predisposizione» nell’analisi delle patologie neuropsichiatriche.
Più interessanti invece le discontinuità su cui l’a. ferma l’attenzione. Due in particolare.
In primo luogo, il devastante impatto della seconda guerra mondiale sulle strutture
degli ospedali psichiatrici, con i conseguenti caotici trasferimenti di pazienti da una sede
all’altra e l’aumento considerevole della mortalità per fame, freddo e precarie condizioni
di igiene. In secondo luogo, la nuova dimensione della «guerra totale» e le sue pesanti
ripercussioni sulla salute mentale della popolazione civile, registrate sia dalle riviste psichiatriche
sia dalle lettere censurate dal regime ed efficacemente utilizzate dall’a. come
controcanto doloroso delle diagnosi neuropsichiatriche. Come quella di una donna di
Ancona, nel gennaio 1944: «Cerco di salvarmi. Ho la morte da tutte le parti. Non so se
domani sarò viva. I bombardamenti sono terribili. Quante vittime! Interi rioni ad Ancona
[…] non sono più che cumuli di macerie. Ieri a Chiaravalle è stato un macello. Impazzisco
» (p. 141).

 Francesco Cassata