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La Repubblica inquieta. L’Italia della Costituzione 1946-1948

Giovanni De Luna
Milano, Feltrinelli, 304 pp., € 22,00

Anno di pubblicazione: 2017

A ogni decennio che passa, un ritorno di fiamma nell’attenzione alle date fondative
della storia della democrazia e della Repubblica aggiunge nuova attenzione sul periodo,
che appare certamente uno dei più scandagliati dalla ricerca. Non ha fatto eccezione il settantesimo
di quegli eventi, che ha visto uscire molti contributi, tra cui questo di Giovanni
De Luna. La cui originalità è quella di restituirci un racconto del periodo costituente, tra
1946 e la fine del 1948 (dopo l’attentato a Togliatti), in cui il contrappunto delle vicende
politiche ed economiche nazionali è fornito con una visione dal basso, con il ricorso a parecchi
diari e lettere dell’epoca, di personalità importanti ma anche di cittadini normali:
da Giorgio Agosti e Luigi Einaudi, alla «madrina di guerra» Annamaria Marucelli, a molti
altri tra cui Margherita Iannelli, Annita Malavasi, Lucia Pagetta, Alfredo Rabito, Pier
Luigi Ricciarelli, Armando Valpreda.
Nella prosa sciolta dell’a. scorre così l’Italia arretrata, segnata da usi e costumi secolari,
come l’Italia lacerata e stravolta dal ventennio dittatoriale, dal conflitto mondiale e
dallo scontro civile. Un’Italia disunita, raccontata nelle prime pagine del libro. Cui poco
per volta si sovrappone la nascita della Repubblica, letta come «repubblica dei partiti»
(De Luna usa la vecchia efficace formula di Pietro Scoppola per alludere al ruolo quasi
ineluttabile di queste nuove strutture nel plasmare la rinascita politica e istituzionale).
Forse si può notare solo, in questo quadro, una certa sottovalutazione del peso e del ruolo
della dinamica internazionale, che è schematizzata nella classica immagine dell’appoggio
americano alla Dc.
Nel chiedersi cosa rimaneva in questa Italia della tensione morale e civile della Resistenza,
l’a. sembra per parecchie pagine indugiare in una ricostruzione piuttosto dicotomica,
di derivazione apertamente azionista, delle «due Italie» (p. 53), con la loro
irriducibile contrapposizione morale e quasi antropologica. Ma seguendo i conflitti e i
passaggi cruciali di questi anni, la fine del ribellismo e le esplosioni di violenze, le resistenze
monarchiche e i timori borghesi, il funzionamento comunitario e la repressione
giudiziaria, il racconto sembra giungere a una ricomprensione più ricca. Come scrive De
Luna, viste dalla società civile le due Italie tendevano a «stemperarsi in un fondo culturale
comune» (p. 251). Non solo fatto di valori e comportamenti (lavoro, famiglia, morale)
che tenevano insieme i nuovi fronti contrapposti della guerra fredda, innovativi o retrivi
che fossero. Fatta anche di quel lascito costituzionale che era il frutto migliore della rinascita
politica antifascista, e che poco per volta divenne alveo comune e regolatore anche di
conflitti, ideologie, utopie divergenti. Proprio la Resistenza aveva fornito il propellente:
«Non fu sufficiente per “fare la rivoluzione”. Ma servì a darci una democrazia. Non fu in
grado di spezzare la vischiosità della “continuità dello Stato”. Ma ci restituì la libertà» (p.
292). Mi pare un linguaggio significativo, dopo settant’anni

Guido Formigoni