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La scoperta dell’Italia. Il fascismo raccontato dai corrispondenti americani

Mauro Canali
Venezia, Marsilio, 496 pp., € 20,00

Anno di pubblicazione: 2017

L’a. ha scritto un libro estremamente interessante sul giornalismo degli Stati Uniti e
il fascismo, sfortunatamente troppo lungo per raccogliere il successo che meriterebbe.
La scoperta dell’Italia è una ricerca approfondita e minuziosa sul lavoro dei corrispondenti
americani fra il 1915 e il 1945, ricca di materiale d’archivio e con un’ipotesi
di lavoro ben chiara: «Per molti anni Mussolini godette di grande popolarità presso la
stampa americana. Gli special correspondents o gli inviati che giungevano numerosi in
Italia per intervistarlo scrivevano articoli apologetici sul giovane dittatore, ne esaltavano
il decisionismo, l’iperattivismo e la ferrea volontà nell’imporre regole a un popolo che in
fondo consideravano anarchico» (p. 9).
Gli esempi che l’a. estrae dalle collezioni dei giornali dell’epoca e dagli archivi dei
Ministeri italiani sono assai numerosi: Samuel McClure scriveva nel 1926 che l’Italia
di Mussolini aveva trovato «l’alba di una nuova civiltà» e Ida Tarbell, nello stesso anno,
«rappresentò un popolo laborioso, felice e pronto, nei giorni di festa, a riempire le strade,
le piazze, i cinema e i teatri … La superficialità delle sue osservazioni sulla società civile
italiana alla vigilia delle leggi fascistissime fa il paio con l’ingenuità che manifesterà nel
corso dell’incontro del 15 luglio 1926 con Mussolini» (pp. 324-325).
Ancora più interessanti le citazioni di Lincoln Steffens, ancora oggi un’icona del
giornalismo americano, che nel riferire di una conferenza stampa di Mussolini a Losanna
lo definiva un «uomo del popolo» capace, scrive Canali, «di prendersi gioco di consumati
uomini politici come Lord Curzon e Poincaré» (p. 92). Steffens definiva Mussolini «coraggioso
», spiegando che «non evitava i duelli ed era un buon spadaccino» (p. 94). Il giornalista
americano avrebbe poi scritto numerosi articoli a sostegno del regime nel lungo
periodo passato in Italia. Nel secondo volume della sua autobiografia compare un intero
capitolo, il XX, dedicato a Mussolini, descritto come «una figura romantica» e addirittura
come il «divino dittatore».
Canali giustamente inquadra l’iniziale ammirazione per il duce nell’atmosfera di
isteria per il pericolo anarchico e bolscevico che dominava gli Stati Uniti nei primi anni
’20 del ’900. Sottolinea poi la debolezza di un giornalismo affascinato dalle grandi personalità,
dagli uomini nuovi, dalle maniere teatrali di D’Annunzio, di Mussolini e, più
tardi, di Hitler. Un difetto congenito del giornalismo americano che possiamo facilmente
verificare oggi nella sua incapacità di capire e contrastare Donald Trump. Il presidente
definisce i giornalisti «nemici del popolo» e dalla categoria arrivano solo flebili proteste.
Se, da una parte, c’era l’ingenuità politica dei corrispondenti, dall’altra c’era la disponibilità
delle élite americane non solo a convivere ma anche a fare affari con il fascismo,
quanto meno fino a che questo non iniziò a disturbare l’ordine internazionale con l’invasione
dell’Etiopia. I dittatori che non minacciano gli interessi economici degli Stati Uniti
sono sempre stati popolari a Washington, allora come oggi.

Fabrizio Tonello