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Laurent Béghin – Da Gobetti a Ginzburg. Diffusione e ricezione della cultura russa nella Torino del primo dopoguerra – 2007

Laurent Béghin
Bruxelles-Roma, Brepols Publishers-Istituto Storico Belga di Roma, 501 pp., Euro

Anno di pubblicazione: 2007

Tra il 1919 e il 1944 buona parte della cultura torinese «fu pervasa da un vero e proprio filone russo» (p. 9). Secondo Béghin nel primo dopoguerra vi fu anzi un «primato» torinese, nella ricezione e nella diffusione in Italia della letteratura e della cultura russe. Gobetti, Gramsci, Polledro, Ginzburg, le case editrici (la Slavia, l’Einaudi), le riviste, i giornali? Chi voglia avere un quadro preciso e aggiornato della Torino «russa» di quegli anni trova qui una narrazione ricca di fatti, fondata sullo spoglio di archivi e di ogni genere di fonte contemporanea a stampa, su un largo spettro di opere secondarie, nonché su alcune originali ricerche precedentemente compiute dall’a. (in particolare su Ginzburg). Il libro ha tuttavia due punti di debolezza: una certa sfocatura del suo oggetto di ricerca e una evidente fragilità interpretativa. La ricezione della cultura russa a tratti si identifica un po’ troppo con quella della letteratura russa, quando non slava, o semplicemente straniera; Torino diventa in alcuni momenti l’Italia intera, e anche l’arco cronologico della ricerca ha ondeggiamenti eccessivi, tra ‘800 e secondo dopoguerra. La ricerca era partita con l’idea di accomunare interesse per la letteratura russa e antifascismo, ciò che Béghin stesso riconosce essere stata un’«ingenuità» (p. 14), sebbene di essa rimangano varie tracce, a partire dall’eccessivo spazio concesso all’attenzione di Gramsci per i fenomeni letterari russi. Si tratta, comunque, di un mondo interessante e complesso, in cui la cultura crociana italiana cominciava a rompere la crosta del profondo disinteresse (e a tratti aperto disprezzo) di Croce per la cultura russa, studiandola con freschezza intellettuale e cercandovi con passione quel che spesso non c’era. Qui sta la particolarità dei Gramsci, dei Gobetti, dei Ginzburg (ad esempio rispetto a Lo Gatto, alle sue riviste e ai suoi più ufficiali centri di studio, tra Roma e Napoli), ben più che nel numero di traduzioni delle case editrici torinesi. Béghin in realtà non propone particolari confronti, né cerca specifiche cause all’individuato primato. Si limita a registrare l’«esterofilia» delle case editrici di Torino e il loro «europeismo» (o meglio la loro attenzione per «l’Europa e il suo rampollo americano», p. 251), fondandosi su categorie esplicative piuttosto deboli quali l’«infatuazione» del pubblico per le letterature straniere (p. 62). Giova al suo lavoro, a questo proposito, avere alle spalle le ricerche di Angelo d’Orsi e di Pier Luigi Bassignana, che gli permettono di vedere chiaramente come l’europeismo della cultura torinese fino a metà degli anni ’30 fosse condiviso «anche da una parte dell’intellettualità fascista» (p. 253) – al punto che il tardo Polledro (creatore della Slavia e delle migliori collane di traduzioni dal russo mai comparse in Italia) poteva bizzarramente teorizzare un nazionalismo culturale fondato sulla piena assimilazione delle culture straniere (p. 270) – e allo stesso tempo come la fascinazione per il mondo sovietico fosse forte anche all’interno della cultura fascista, tanto più in una città il cui principale quotidiano finì per essere diretto anche da Curzio Malaparte.

Antonello Venturi