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L’estate che imparammo a sparare. Storia partigiana della Costituzione

Giuseppe Filippetta
Milano, Feltrinelli, 202 pp., € 22,00

Anno di pubblicazione: 2018

Rilettura suggestiva dell’esperienza partigiana e del suo significato storico e giuridico-politico, questo denso saggio rivela una tela fine e sofisticata. Favorita da una scrittura evocativa e incisiva e sorretta da un sapiente uso della memorialistica, della letteratura e della storiografia, essa muove da alcuni espliciti riferimenti storiografici (Pavone, Quazza, De Luna) e da sottaciuti rimandi filosofico-giuridici (Foucault, Toni Negri) per disegnare un’originale interpretazione della «Resistenza in quanto manifestazione della sovranità popolare come sovranità dei singoli» (p. 220). Quei singoli che con l’imbracciare le armi a difesa di se stessi e dunque delle proprie comunità avrebbero manifestato la propria sovranità nel contesto di anomia determinatosi dopo l’8 settembre 1943.
Sparare fu dunque atto fondante di sovranità, di libertà e autonomia, compiuto da una moltitudine di individui e che nella banda partigiana avrebbe trovato espressione e gestione, traducendosi in atti giuridici volti a proteggere e ordinare spazi territoriali e comunitari dai quali a sua volta avrebbe tratto legittimità. Partiti antifascisti e Comitati di liberazione nazionale sarebbero venuti a seguito, e non a monte, di quell’atto di sovranità, del quale dopo la Liberazione si sarebbero in qualche modo appropriati, riassorbendone troppo rapidamente e rigidamente la dimensione individuale e subordinandola a quella «popolare», ovvero collettiva e partitica. Anche se ne sarebbe rimasta traccia nella Costituzione del 1948, partiti e storiografia a essi collaterale – raffigurata qui troppo schematicamente – avrebbero a lungo, pur non senza tensioni, marginalizzato il protagonismo e la dimensione individuale che furono invece il fattore propulsivo di un’eccezionale stagione di libertà e autonomia, di contro alla mortificazione degli individui operata non solo dal fascismo e dai suoi violenti epigoni, ma da una cultura giuridica che identificava la sovranità con la mera dimensione collettiva, nazionale o popolare, sempre e comunque subordinata al potere statuale.
Per quanto non priva di qualche rigidità, questa proposta interpretativa solida e ricca di innumerevoli spunti meriterebbe un’ampia discussione. Qui, tra i molti pregi, al di là della riapertura del dibattito sulla sovranità e dunque sul tema mai sopito della continuità o rottura nel ciclo guerra-resistenza-Costituzione – anche qualora non si condivida la tesi dell’intrinseco significato «costituente» del gesto di «sparare» (il silenzio a proposito dei Gap ne segnala una qualche fragilità) e dunque della primazia esclusiva della «Costituzione dei fucili», cosicché le «altre resistenze» (politica, partitica o «civile» che dir si voglia) e la sovranità da loro eventualmente espressa sarebbero secondarie o subalterne –, va apprezzata la valorizzazione del momento militare, della scelta delle armi e della sua ragion d’essere intimamente politica, nel breve come nel lungo periodo, nelle esperienze dei singoli, come nella storia della democrazia repubblicana.

Simone Neri Sernieri