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Li chiamavano terroristi. Storia dei Gap milanesi (1943-1945

Luigi Borgomaneri
Mila- no, Unicopli, 359 pp., € 15,30

Anno di pubblicazione: 2015

In Italia accostare la parola terrorismo alla lotta partigiana è comprensibilmente un tabù (eccezion fatta per neofascisti e affini), a causa della scia di sangue lasciata nella no- stra memoria dai gruppi estremisti di destra e di sinistra operanti tra il 1969 e la metà de- gli anni ’80. Se il terrorismo è quello, esercitato in tempo di pace e di solito contro inermi per abbattere la democrazia, non si può certo confonderlo con la Resistenza, nemmeno nei suoi aspetti più crudi di guerra civile. Ma basta allargare lo sguardo in prospettiva storica, come fa Borgomaneri nel suo saggio sui Gap di Milano, per constatare che, nei conflitti contro occupazioni straniere e tirannie assortite, «il ricorso al terrore è una tappa obbligata per chiunque intenda creare le condizioni favorevoli alla nascita e allo sviluppo di una lotta armata di massa» (p. 57). Del resto all’epoca non solo i comunisti, ma an- che altri antifascisti, non esitavano a sottolineare la necessità di compiere azioni definite apertamente terroristiche contro le forze del Terzo Reich e della Rsi. L’a. non nega quindi che gli attentati dei Gruppi d’azione patriottica, creati dal Pci per scatenare la guerriglia urbana, avessero come obiettivo il terrore. Ma correttamente ne spiega la necessità dopo la catastrofe dell’8 settembre 1943, quando i nuclei clandestini comunisti costituivano
«l’unica struttura di combattimento in quel momento possibile per infrangere l’attesi- smo» (p. 47) e colpire il nemico con qualche efficacia.
È una opportuna opera di chiarificazione, a cui il libro ne aggiunge altre sulla scorta del saggio di Santo Peli Storie di Gap (Einaudi, 2014), per sostituire al mito eroico coltiva- to dal Pci, e all’antimito squalificante propagato dalla destra (non solo quella strettamente nostalgica), le più prosaiche risultanze delle fonti disponibili. Ne emerge che a Milano
– ma altrove la situazione non era molto diversa – i Gap non furono affatto gruppi di ri- voluzionari sperimentati dalla disciplina ferrea, ma drappelli di giovani spesso sprovveduti quanto temerari, che violavano di continuo le norme cospirative, perché in situazioni del genere «o si infrangono le regole o non si fa niente» (p. 115), e perciò vennero «per tre volte distrutti» (p. 339) dalla repressione nazifascista.
D’altronde lo stesso Pci, poco avvezzo a una lotta fatta di attentati individuali, si adattò con fatica a sostenere la guerriglia urbana e finì spesso per trattarne i protagonisti con freddezza, se non con diffidenza, tant’è vero che alcuni aspetti della vicenda gappista milanese furono poi cancellati dalla memoria comunista dopo il 1945. L’a. invece ne ricostruisce le tappe con estrema attenzione, riportando alla luce esempi di coraggio e personaggi ingiustamente dimenticati, ma anche errori, ottusità ideologiche, episodi im- barazzanti. L’esperienza dei Gap, per il suo carattere tragico, resta una fonte inesauribile di polemiche, ma lavori così accurati permettono di considerarla con maggiore consape- volezza storica.

Antonio Carioti