Anno di pubblicazione: 2014
«Leopardi è per me il nome simbolo dell’incontro-scontro fra antico e moderno
[…] uno dei grandi maestri della discussione sulla modernità, insieme a Marx filosofo
e a Baudelaire, […] da accostare a questi tre Stendhal l’uomo della Restaurazione, l’uomo che, come noi, vive soffrendo la restaurazione. Se scrivessi un romanzo lo intitolerei
Civitavecchia, cioè il “dopo”, la piccola città lontana. In cui va a finire, console in esilio,
ricordando quello che ha fatto e che ha sperato».
È un passaggio di un’intervista che Giulio Bollati rilasciò a «Idra» nel 1991 e in cui si
ritrovano molti elementi della sua riflessione civile. In quest’affermazione c’è il suo interesse per Leopardi, manifestato da sempre, ma vi fa capolino anche un’idea di modernità
che in qualche modo è stata sconfitta. Quella sconfitta Giulio Bollati l’aveva radiografata
a lungo nella formazione culturale italiana tra ’700 e ’800, prima ancora del compimento
politico dell’Unità.
Come intuisce Alfonso Berardinelli, quella sconfitta matura già tra Età delle riforme e Rivoluzione francese, tra un momento di entusiasmo nel quale sentirsi parte di un
progetto e il lento crescere della diffidenza e, dunque, la ricerca della propria eccezionalità
«per sottrarsi» (sono le due note su Alfieri e Manzoni, qui alle pp. 113-130).
Il momento essenziale è tra anni ’80 e Italia napoleonica intorno alle figure di Vittorio Alfieri e poi di Vincenzo Cuoco, che Bollati fotografa con precisione nel saggio del
1995 e che chiude questa raccolta (La prosa morale e civile). Un laboratorio di riflessione
avviato con la lettura attenta delle tragedie di Manzoni (pp. 95-112) e del Leopardi della
Crestomazia (pp. 3-94), il primo tentativo di elaborare un’antologia della letteratura italiana per gli italiani, una raccolta che, sottolinea Bollati, significativamente ha come secolo
cardine il ’500. Ma anche l’attenzione dedicata a Cattaneo, una voce solitaria che resta
tale nella cultura italiana, per l’insistenza sul ruolo e la funzione del sapere scientifico e
tecnico più che per l’ipotesi federalista.
Uno sforzo d’interpretazione del «ritardo italiano» in cui si sommano le volontà politiche, la retorica letteraria ma anche, appunto, l’insistenza e la diffidenza verso il sapere
scientifico e tecnico e in cui la discussione economica è spesso discussione sulla morale.
Un tema che ha costituito a lungo il «rovello» della riflessione di Bollati intorno a Sismondi, alla dimensione del ruolo dei ceti aristocratici nella storia italiana tra ’700 e ’800, di
cui Cattaneo è un aspetto mentre l’altro, rimanendo a Milano, è il nucleo dei Conciliatori
(Pellico, Confalonieri e, soprattutto, Giuseppe Pecchio), su cui si trovano cenni molto
interessanti nel suo testo del 1995 e che ancora oggi rimane una pista di ricerca sostanzialmente inesplorata sulla formazione del «carattere dell’Italiano». L’altra faccia, quella più
nota e molto proficua dei temi che Giulio Bollati ci ha lasciato in eredità