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L’Italia delle sconfitte. Da Custoza alla ritirata di Russia

Marco Patricelli
Roma-Bari, Laterza, 304 pp., € 20,00

Anno di pubblicazione: 2016

L’Italia delle sconfitte è sin da titolo un libro a tesi. E la tesi – non nuova – è che la sconfitta sia qualcosa di connaturato al paese, frutto quasi inevitabile delle sue inadeguatezze politico-militari, delle sue spaccature interne e di un antimito dell’italiano imbelle che pare qui confermato dalla prova dei fatti. D’altronde, come rigettare una simile lettura della nostra storia militare davanti alla serie di débâcles collezionate fra il 1866 e il 1945? Lissa e Custoza, Adua, Caporetto, la campagna in Grecia del 1940 e quella di Russia del 1941-1943 rappresentano così nella ricostruzione di Patricelli solo le tappe più clamorose di un percorso unico e coerente, che nel libro si snoda attraverso cinque capitoli dedicati ognuno a uno di questi momenti.
Eppure, senza negare le note difficoltà dell’Italia in guerra, su cui peraltro la storiografia seguita a ragionare anche laddove formalmente si vinse (si pensi a La guerra italiana per la Libia di Labanca), quest’impostazione non convince.
Non convince intanto la marcata continuità che emerge nel racconto di Patricelli fra fasi della storia italiana e fra conflitti assai differenti fra loro: una più ampia contestualizzazione e una maggiore attenzione alle specificità di ognuno di essi avrebbero magari nociuto alla linearità dell’interpretazione, ma avrebbero reso meglio le ragioni di queste sconfitte e la complessità di queste vicende. A giudizi spesso tranchant si accompagnano d’altronde un linguaggio caustico e una provocatoria ironia di fondo che rendono la lettura godibile, ma a volte sconfinano in espressioni lontane da quella ponderazione richiesta allo storico, che avrebbe per esempio sconsigliato di definire il processo Baratieri un’occasione in cui la Giustizia «farà addirittura violenza a se stessa, come qualunque studente di Legge percepisce immediatamente al solo scorrere gli atti» (p. XI). Infine, in una bibliografia che pure contempla molti dei «classici», si sente la mancanza della letteratura più recente su temi centrali per la comprensione delle difficoltà italiane sui campi di battaglia, come quella sul colonialismo, sulla giustizia militare, sul rapporto fra indottrinamento e disciplinamento oppure sulla Grande guerra: lacune acuite dal ridotto ricorso a fonti archivistiche inedite e dalle pochissime aperture comparative, che non aiutano a sostenere una tesi così forte né, tanto meno, consentono di apprezzare la presunta peculiarità del caso di studio.
Già autore di premiati lavori, Patricelli non può ignorare tutto questo. Tuttavia, sconta qui oltremodo sia le difficoltà di studiare in profondità e nel lungo periodo l’universo militare con la peculiare complessità della sua struttura giuridico-istituzionale e socio-economica, sia una certa ritrosia a osservarlo nel più ampio quadro dei molteplici ambiti con cui esso è strutturalmente interconnesso, e a guardare al momento bellico senza slegarlo dal tempo di pace. D’altronde, parafrasando una nota frase, «La guerra è una cosa troppo seria per farla spiegare solo attraverso i militari».

Marco Rovinello