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L’Italia e i Giochi Olimpici. Un secolo di candidature: politica, istituzioni e diplomazia sportiva

Tito Forcellese
Milano, FrancoAngeli, 272 pp., € 34,00

Anno di pubblicazione: 2013

Forse appesantito da un eccessivo ricorso alla prima persona e da un apparato di note talvolta poco comprensibile e fruibile, quello di Forcellese è un libro interessante e importante. All’a. va riconosciuto un duplice merito: avere resistito al fascino dell’aneddotica, mettendo peraltro un argine a quella deriva «sociologizzante» che tanto penalizza la storia dello sport, e l’aver finalmente ricollocato i rerum pondera politici al centro della riflessione storiografica, sulla scorta di un rigoroso e proficuo utilizzo delle fonti d’archivio (Cio, Coni, Acs, AsMae).
Indissolubili ed evidenti d’altra parte sono i legami tra sport e politica. A rappresentare la loro più efficace espressione simbolica sono proprio i Giochi Olimpici, che «si intersecano inevitabilmente con le istituzioni politiche […], specie nella fase preparatoria delle candidature» (p. 11). Per l’a., che pure non nega l’indipendenza e l’autonomo potere d’iniziativa della diplomazia sportiva, accennando ad esempio all’importante ruolo svolto dal grand commis dello sport italiano, Alberto Bonacossa, sono infatti sempre la scelte della politica alla fine, nel bene e nel male, a condizionare le sorti delle candidature olimpiche. Fu proprio così con quelle di Roma, prima della sua designazione a sede dei Giochi della XVII Olimpiade. Ad affossare la prima, tra il 1904 ed il 1906, furono il secondo ministero Giolitti e una classe dirigente, alla quale mancava «la percezione del crescente interesse popolare per lo sport» (p. 40). Al naufragio della seconda contribuì invece, nel febbraio del 1935, la diplomazia personale e segreta dello stesso Mussolini, che, d’accordo con l’ambasciatore giapponese Yotaro Sugimura, sacrificò i Giochi Olimpici sull’altare dell’Esposizione Universale del 1942, a dispetto dell’attivismo di Bonacossa in sede Cio.
Ovviamente quella della politica non è sempre stata un’influenza negativa. Davvero positivo, tra il 1949 e il 1959, si rivelò infatti, ai fini del buon esito della terza ufficiale candidatura capitolina, il continuo, totale e incondizionato appoggio garantito dal governo al Coni di Giulio Onesti. Il legame fu tale da rendere pressoché corrispondenti tra loro i capisaldi della politica estera italiana di quegli anni e le linee guida della diplomazia sportiva. Nel pieno rispetto dell’atlantismo prima, e delle nuove suggestioni gronchian-fanfaniane poi, il quartetto Onesti-Zauli-Bonacossa-Thaon di Revel si adoperò così per lo sviluppo di relazioni privilegiate con gli amici americani, agevolando infatti nel 1952 l’elezione di Avery Brundage alla presidenza del Cio, e quindi per la creazione di un’alleanza parallela con i paesi dell’Est europeo, che votarono non a caso in blocco a sostegno della candidatura di Roma. A giovarle furono quindi una vera visione d’insieme e una perfetta unità d’intenti. Quelle che da ultimo sono mancate al progetto di Roma 2020, affossato dal governo Monti, dietro alla cui scelta «si cela una mancanza di fiducia […] che non aiuta a superare la grave crisi economica e morale che attanaglia il nostro Paese» (p. 258).

Enrico Landoni