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Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato

Giorgio Fabre
Palermo, Sellerio, 536 pp., € 24,00

Anno di pubblicazione: 2015

l’ultimo di una serie di volumi usciti in questi anni sullo stesso tema (la complessa
vicenda della prigionia di Gramsci e dei tentativi per liberarlo) ad opera di Canfora
(Gramsci in carcere e il fascismo; Spie, Urss e antifascismo: Gramsci 1926-1937), Vacca (Vita
e pensieri di Antonio Gramsci 1926-1937) e Canali (Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la
verità negata). L’a. è debitore soprattutto nei confronti di Canfora, per l’impostazione
filologica, presentando comunque indubbie novità sia a livello di documentazione, soprattutto
vaticana, che di interpretazione.
Di fronte a queste pagine è però difficile sfuggire alla tentazione di instaurare un
parallelismo (già compiuto alcuni anni fa da Mastrogregori in I due prigionieri. Gramsci,
Moro e la storia del Novecento italiano) tra la sorte di Gramsci e quella di Moro, accomunati,
nell’ultimo periodo della loro vita, da un destino di prigionia e di morte. Nelle
condizioni più estreme, essi seppero mantenere (e per certi versi esaltare) la loro capacità
di riflessione nel confronto con le «autorità» che li tenevano prigionieri (come con quei
poteri che i due prigionieri ritenevano, a torto o ragione, ostacolare la loro liberazione,
Stato o Partito che fossero), cercando di trovare una via d’uscita mentre riflettevano sulla
storia d’Italia e sulle sue classi dirigenti. Una riflessione talmente importante che, per
alcuni aspetti, le carte vergate durante la loro prigionia diventarono oggetto di ricerca,
mistero, manipolazione.
Un altro dei temi centrali del libro è quello del rapporto tra il Pci, i suoi dirigenti e
la sua storia. Il Pci, molto più delle altre forze politiche italiane, l’ha curata e ha cercato
di salvaguardarla. Ciò è accaduto anche perché il gruppo dirigente comunista era formato
in buona parte da intellettuali. Soprattutto, c’era la convinzione di far parte di un movimento
internazionale che incarnava l’inveramento di una tappa fondamentale della storia
umana. Una fede che necessitava di una giustificazione in termini di storia, al punto da
forzare i fatti storici «in un rapporto con essi non banalmente oggettivistico» (secondo
l’espressione di uno dei protagonisti del libro, Donini, in una lettera a Togliatti citata in
precedenza da Canfora). È in questo gnosticismo che probabilmente risiede quella che
Fabre definisce la «strana fascinazione» di Gramsci per la diplomazia del Vaticano, che lo
portò a credere, erroneamente, che la sua «salvezza» potesse passare attraverso la sua mediazione.
In questo contesto nasce la «storia sacra» (Canfora), di cui il massimo sacerdote
italiano è stato indubbiamente, con la sua intelligenza e il suo cinismo, Togliatti, verso la
cui azione Fabre mostra comprensione (pur riconoscendone gli errori che, nelle trattative
per la liberazione, alla fine andarono a scapito dello stesso prigioniero) sia perché, nella
Mosca degli anni ’30, si trattava di salvare la pelle; sia, e soprattutto, per essere riuscito
nell’impresa, per quello che riguarda Gramsci, di «delinearne l’opera politica e intellettuale
in un assai difficile equilibrio tra il ribadimento dell’ortodossia cominternista e la
rivendicazione della sua originalità» (p. 48).

Giovanni Scirocco