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Luciano Bianciardi. La protesta dello stile

Carlo Varotti
Roma, Carocci, 307 pp., € 23,00

Anno di pubblicazione: 2017

L’a., docente di Letteratura italiana all’Università di Parma, apre il volume ricordando un passaggio della Vita agra in cui Bianciardi mette in scena una discussione tra i redattori di una rivista di cinema. Ascoltando le iperboliche interpretazioni del direttore a proposito di Senso, il film di Luchino Visconti tratto dall’omonimo racconto di Camillo Boito, il protagonista riflette: «volevo obbiettargli che allora (nel 1866) il tenente Mahler non poteva essere consapevole della fine degli Absburgo (fu nel 1918, più di mezzo secolo dopo); e che la battaglia di Custoza fu chiamata così attorno al 1868, da uno storico tedesco di cui ora mi sfugge il nome (ma in quel momento lo sapevo); perciò Mahler, la sera della battaglia, standosene a Verona, e ubriaco, per giunta, e a letto con una donna, come faceva a sapere che c’era stata la battaglia di Custoza?» (p. 12). Questa considerazione non è l’unico consiglio che chi si occupa di storia può trovare nelle pagine di Bianciardi.
Il volume è un lavoro di critica letteraria, che propone una lettura – e una guida alla lettura – dell’intera opera di Bianciardi, presentata in ordine cronologico. In ogni capitolo l’a. analizza un’opera o un insieme di scritti: da questo punto di vista il libro si candida anche a essere un pratico manuale per un corso monografico.
Della biografia di Bianciardi, l’a. evoca solo i tratti essenziali, appoggiandosi sulla bibliografia esistente, per contestualizzarne l’attività pubblica e il lavoro di scrittore e di traduttore al centro dello studio. «Con questo libro abbiamo voluto porre l’accento sullo scrittore» (p. 22); o ancora, «non è l’originalità del saggista e del sociologo che interessa […] quanto la sua capacità di tradurre concetti e idee in uno stile» (p. 120).
Varotti mette in valore lo sperimentalismo già postmoderno della scrittura di Bianciardi, il suo uso della parodia, le fonti letterarie della sua scrittura, la capacità di creazione linguistica (legata anche al suo mestiere di traduttore), l’attenzione che ebbe per i tic linguistici del suo tempo. Gli storici si sono già rivolti a Bianciardi come caso di studio per la storia degli intellettuali del dopoguerra (compreso quel particolare capitolo relativo ai rapporti tra intellettuali e Partito comunista) o come «documento» per la storia delle trasformazioni culturali e materiali dell’Italia del miracolo economico. Il libro può aiutare a ritornarvi con un occhio più attento agli elementi letterari e stilistici.
Si segnalano infine i capitoli 7 e 10, dove Varotti rilegge le opere di Bianciardi dedicate direttamente o indirettamente al Risorgimento e, tra le altre cose, propone di rivalutare Aprire il fuoco. Emerge il ruolo di divulgatore storico che Bianciardi svolse, con alcune notizie relative anche al suo modo di documentarsi. Da questo punto di vista, non è escluso che leggeremo di Bianciardi anche all’interno della recente fiorente disciplina della public history. Purtroppo non potremo leggere quel che Bianciardi ne avrebbe a propria volta scritto.

Filippo Benfante