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Malaterra. Come hanno avvelenato l’Italia

Marina Forti
Roma-Bari, Laterza, 208 pp., € 13,00

Anno di pubblicazione: 2018

Il volume della giornalista Marina Forti è un reportage in otto tappe attraverso l’Italia inquinata, in cui l’ambiente nella sua integralità è stato a lungo subordinato alle esigenze dell’industrializzazione e del benessere, in particolare negli anni del secondo dopoguerra e della Golden Age, con pesanti lasciti in termini di salute e di impatto ecologico e urbano, tuttora persistenti e molto gravi. La Caffaro di Brescia, il polo chimico di Colleferro e della Valle del Sacco, l’Ilva di Taranto, Porto Marghera, le ventuno discariche di Montichiari, i petrolchimici del Siracusano, la metallurgia di Portovesme e Postoscuso in Sardegna, la «ferropoli» di Bagnoli, sono tutti esempi di una parabola comune a gran parte del paese.
Eccone i passaggi salienti: il decollo della produzione industriale negli anni della ricostruzione; il boom economico; il sostegno pubblico all’industria nelle zone depresse; il lavoro contadino che diventa operaio; il favore delle popolazioni locali, della politica e degli stessi sindacati, che chiudono gli occhi di fronte ai problemi ambientali («Quando il petrolchimico dava lavoro, l’inquinamento non si sentiva», racconta un dirigente sindaca- le di Siracusa, p. 126); le crisi e le ristrutturazioni a partire dalla seconda metà degli anni ’70; il pesante ridimensionamento dell’occupazione degli anni ’80 e ’90; l’esplosione delle emergenze sanitarie e ambientali; gli irrisolti problemi delle bonifiche, a tutt’oggi incompiute o parziali; infine, il dibattito intorno alla possibilità di mantenere in attività produzioni ad alto tasso di inquinamento, «ambientalizzandole» («È possibile ambientalizzare l’Ilva?», è – per l’appunto – l’interrogativo che arrovella l’opinione pubblica cittadina e nazionale sull’impianto siderurgico tarantino, p. 76). La crisi economica e occupazionale di questi ultimi anni rischia di riacutizzare il conflitto tra lavoro e ambiente, tornando a spostare l’ago della bilancia a detrimento di quest’ultimo, come nel caso del distretto sardo dei metalli (pp. 155-156).
L’a. disegna un quadro a tinte vivide, scritto con linguaggio incalzante, appoggiandosi anche ad alcune ricerche storiche (per esempio quelle di Marino Ruzzenenti, Salvo Adorno, Simone Neri Serneri, Gabriella Corona, Pier Paolo Poggio e altri). Il volume è meritorio e apprezzabile nella sua capacità di mettere in luce anche casi non notissimi al grande pubblico, accanto ad altri su cui invece molto si è parlato e scritto. Come accennato, risulta chiaro che si tratta di un ottimo lavoro giornalistico e non di un’opera storio- grafica, che d’altra parte – e con ogni evidenza – non rientrava negli intenti dell’a.: non lo è né per metodologia, né per tipo, ampiezza e uso di fonti primarie e/o secondarie, né per inquadramento dei singoli casi trattati. Con ciò non si intende rivolgere una critica, ma fare una constatazione: quello dell’a. è semplicemente un lavoro diverso da quello di uno storico.

Bruno Ziglioli