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Marco Dogo e Guido Franzinetti (a cura di) – Disrupting and Reshaping. Early Stages of Nation-Building in the Balkans – 2002

Marco Dogo e Guido Franzinetti (a cura di)
Ravenna, Longo Editore, pp. 164, euro 25,82

Anno di pubblicazione: 2002

I saggi del volume si interrogano sulla disgregazione ottomana e le sue conseguenze. Malgrado la loro qualità diseguale, essi fanno luce su un ampio spettro di casi, che vanno da quello serbo a quello turco. Al centro dell’attenzione vi sono i se e i ma di quello che si usava presentare come il cammino trionfale dei ?Risorgimenti?, la predestinazione di ogni ?popolo? alla costruzione di uno stato nazionale il più omogeneo possibile. Due saggi tra i più acuti e documentati del volume, quello di Dogo e quello della Mishkova, rappresentano due approcci diversi alla definizione del ruolo di quei se e di quei ma. Entrambi ribadiscono la necessità di introdurre non linearità, imprevedibilità, e finanche indeterminazione nei processi di nation-building ? come suggerisce anche il saggio di Kalionski a proposito degli slavi dell’area macedone. Ma proprio alla luce del peso dei se e dei ma, giustamente sottolineato da Dogo, il trionfo, almeno in un certo periodo storico, dello stato nazionale omogeneo, appare ? come nota la Mishkova ? ancor più notevole. Nessuna marcia trionfale, insomma, ma grande potenza di un modello i cui legami biunivoci con la modernità, non solo causa ma anche prodotto della costruzione statale, sono segnalati dal sofisticato saggio di Kostis.
Parrebbe insomma che, più che abbandonare il modello evolutivo, si tratti di passare da una sua versione lamarckiana e determinista ad una aperta e casuale, che guardi alle strade diverse, ma non ignori il prodotto finale, e si interroghi sui perché della forza della sua emersione. Naturalmente si tratta anche di abbandonare l’idea che il ?successo? comporti un giudizio positivo: come nel caso turco, per quel successo è stato pagato un prezzo (segnalato per le elezioni ottomane del 1919 da ?eker) tale da rendere impossibile qualunque celebrazione.
Segnaliamo poi l’analisi della Marinkovi? della natura ?plebea? dell’élite serba formatasi sotto il dominio ottomano, che spinge a chiedersi se, dalla rinuncia a sostenere un proprio stato e una propria nobiltà, le campagne serbe non abbiano tratto qualche vantaggio economico di breve periodo, pagato poi col blocco dello sviluppo. Acuto è anche l’approccio concreto allo stato greco di Kostis, come acuto è il suo concentrarsi sullo state, piuttosto che sul nation building, che del primo è stata la manifestazione ?normale? ma non esclusiva. L’interesse delle analisi economiche di Palairet è noto: colpisce qui il quadro della vittoriosa opposizione dei contadini serbi, dopo l’indipendenza, alla formazione di una ?nobiltà? nazionale. Se l’ipotesi che la vittoria contadina abbia ostacolato lo sviluppo sembra in parte condivisibile, c’è da chiedersi però quanto ?sviluppo? sia rimasto nascosto proprio dall’affermarsi dell’azienda contadina tradizionale col suo sfuggente autoconsumo. Bello è poi il richiamo della Mishkova al primato della politica come ?maledizione dell’arretratezza? e si fa notare la descrizione di ?eker della spregiudicatezza nell’uso della religione da parte di un’élite sostanzialmente laica come quella dei giovani turchi.
Il confuso saggio della Deren conferma invece il diseguale panorama del volume, a tratti piagato da un inglese sorprendente. Resta comunque intatto il valore di uno sforzo comparativo che ha nel nostro paese pochi seguaci.

Andrea Graziosi