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Marco Fincardi – C’era una volta il mondo nuovo. La metafora sovietica nello sviluppo emiliano – 2007

Marco Fincardi
Roma, Carocci, 287 pp., Euro 23,50

Anno di pubblicazione: 2007

Il libro presenta, in un affascinante intreccio di storia e memoria, alcuni tratti della genesi del mito dell’Unione sovietica in Emilia. Si tratta di un percorso genetico perché, nonostante una parte delle fonti sia costituita da interviste e riguardi un ambito cronologico successivo alla seconda guerra mondiale, l’a. ha a cuore il problema dell’egemonia di una determinata cultura politica nella società locale e per questo prende le mosse da Prampolini, dall’Inno dei lavoratori, dal radicamento del socialismo riformista nel Reggiano. I primi due capitoli servono a Fincardi a impostare i problemi e definire i percorsi di ricerca per la ricostruzione di fondamenti e contenuti dell’immaginario collettivo, mentre i tre capitoli finali – riccamente documentati da ampi brani di interviste – costituiscono il cuore del lavoro e devono essere discussi. Una delle tesi del libro è indicata con chiarezza a p. 205: la provincia reggiana rappresenterebbe una smentita alla tesi – espressa originariamente da G. Roth e poi largamente ripresa – secondo la quale l’opposizione radicale e senza esito di governo (i comunisti in Italia, ma anche i socialdemocratici nella Germania guglielmina) darebbe luogo a un’integrazione negativa e alla creazione di subculture territoriali chiuse in se stesse e limitate nei loro orizzonti. La tesi è interessante e riceve argomentazioni e una buona documentazione nelle pagine dedicate alla ricostruzione del clima culturale nel Convitto-Scuola della Rinascita «Luciano Fornaciari», fondato a Reggio Emilia dall’ANPI nel 1945, di cui sono ricordati i programmi di formazione tecnica e la cultura produttivistica. Solo che i capitoli precedenti (3. 1929-1945: un’altra patria e 4. Repubbliche da edificare) contengono proprio le testimonianze che illustrano la classica subcultura territoriale «rossa», quella delle piccole Russie, delle feste di cellula e di sezione come feste di famiglia, della socializzazione tutta interna al mondo del Partito. Dunque «Stachanov in Emilia» negli anni ’50 non sembra mettere in discussione i caratteri noti della subcultura territoriale rossa. Diverso, probabilmente, sarebbe il discorso per gli anni successivi, fra miracolo economico e centro-sinistra, quando tutte le aree rosse vissero un’importante stagione di sviluppo con l’esplosione della piccola e media industria, e quando la continuità col «mondo nuovo» della «metafora sovietica» fu integrata dall’idea del profitto e dell’arricchimento individuale e dall’accettazione della legittimità del modello capitalistico. Si nota a volte – ma la cosa è vera in numerosi lavori di storia fondati su interviste e fonti orali – un eccesso di Verstehen dell’a. verso i soggetti della sua ricerca e qualche lacuna bibliografica. Per tutte: D. Kertzer, Politics & Symbols. The Italian Communist Party and the Fall of Communism (New Haven, Yale University Press, 1996), e altri lavori dello stesso studioso che sarebbero stati particolarmente utili all’a. nel suo disegno di «decifrare le simbologie dell’esperienza politica memorizzate dai militanti» (p. 11)

Franco Andreucci