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Marina D’Amelia – La mamma – 2005

Marina D’Amelia
Bologna, il Mulino, pp. 336, euro 14,50

Anno di pubblicazione: 2005

Il mammismo fu inventato nel 1952, almeno come termine. Ma certo il mito unificante e coesivo della madre italiana affondava le radici in un humus assai più antico, e si nutriva di elementi che avevano caratterizzato il discorso pubblico sulla famiglia e sul ruolo materno da almeno cento anni.
In questo bel libro, sorretto da una ricerca che si indovina ancora più ampia, solida e approfondita, di quanto i criteri della collana consentono, con la rinuncia alle note, Marina D’Amelia, già curatrice della fortunata Storia della maternità di Laterza, ci aiuta a riflettere su quello che a buon diritto è uno dei pilastri dell’identità italiana. La vivacità dell’esposizione e il tema stesso hanno contribuito al successo mediatico del volume, di recente vincitore di un premio in cui le giurie di studenti e di lettori hanno un peso decisivo. Successo ben meritato per il modo assai attento e rigoroso in cui l’autrice dipana una serie di fili che a volte sembrano incontrarsi e quasi identificarsi eppure svelano poi tante voci diverse, soggetti che di volta in volta hanno utilizzato il tema del modello materno per indicare diverse letture e modelli della famiglia, della società, e della politica: e sempre ? in qualche modo ? della nazione.
Mi pare che anche l’esperienza di modernista di D’Amelia l’aiuti a porre una serie di questioni con uno sguardo lungo, capace di cogliere l’innovazione su modelli assai consolidati, o addirittura d’ancien régime (p. 49). Le madri risorgimentali a buon diritto meritano un intero capitolo: da Adelaide Cairoli in poi hanno costituito un asse portante del mito di un Risorgimento proposto in una dimensione familiare e non solo. Ma accanto alla Savio e alla Drago, o a Eleonora Ruffini, si insinua il discorso di Mantegazza: la donna ?ama gli uomini più che la patria; l’umana famiglia più che la nazione a cui appartiene? (cit. p. 99). Accanto al discorso patriottico si snoda quello selfhelpista, mentre fanno capolino altri sguardi, altre e contraddittorie inquietudini, e le ombre della rigenerazione del patrimonio razziale della nazione. Al tempo stesso si conferma, e si modifica, il modello forte delle madri cattoliche, giustamente declinate al plurale, e altrettanto plurali sono le voci delle madri della Grande guerra: alcune più attente alla sicurezza del figlio, altre non innocenti rispetto ai suoi sogni di gloria. Al discorso fa da contrappunto la realtà delle inchieste o quella colta dall’antiretorico Alvaro: ?in un raduno di madri prolifiche a Roma fu dato un buon pranzo alle convenute. Una di esse si mise a piangere improvvisamente, una povera donna che pensava a suo figlio a ogni boccone che avrebbe dato volentieri a lui? (cit. p. 232). Dispiace solo che questo lavoro non sia andato oltre il fascismo e Salò, per indagare in modo più approfondito anche il dopoguerra, fino ad altre e forse più profonde cesure nella società e nel costume.
Ora che abbiamo un quadro così preciso sulla mamma italiana si dovrebbe forse andare avanti anche nella comparazione, per cogliere quanto di davvero specifico e di italiano vi fosse in un discorso che declina nelle varie lingue nazionali anche i modelli femminili. Ma forse non quelli della ?mamma?. Che sia questa davvero una specificità italiana?

Ilaria Porciani