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Mario Fincardi – Campagne emiliane in transizione – 2008

Mario Fincardi
Bologna, Clueb, 194 pp., euro 18,00

Anno di pubblicazione: 2008

Si tratta di una raccolta di sette saggi, scritti tra il 1990 e il 2006, sulla costruzione delle reti associative popolari dell’Emilia Romagna, il loro significato e ruolo, soprattutto nella fase del tardo ‘800. È un’operazione utile perché l’a. ha fatto in questo periodo una ricerca e una riflessione approfondite e il risultato è un’opera che si legge compattamente. Con molta passione Fincardi argomenta la sua tesi: attraverso la cultura associativa, i ceti popolari hanno cercato una propria strada alla modernizzazione senza lasciare dissolvere proprie identità tradizionali. Anzi le reti di sociabilità riconfigurate nell’800 avrebbero innescato mutamenti sociali e politici più di quanto non abbia fatto la diffusione di infrastrutture e di rapporti economici moderni. A dispetto di crude visioni economiciste, sarebbero state loro il fattore più dinamico dell’organizzazione territoriale, perché è nel quotidiano inteso a tutto tondo che si gioca la partita dell’egemonia sociale, sostiene Fincardi, riecheggiando in qualche modo Maurice Agulhon.Proprio questa forte esperienza della libera volontà di unirsi avrebbe lasciato un sedimento in grado di far sì che lo sviluppo economico e l’emancipazione restassero sempre legati. Affrontati con questa ancora di salvezza, i marosi della grande trasformazione del secondo dopoguerra sarebbero stati superati dalla comunità senza gravi pericoli di disgregazione. L’a. illustra soprattutto i protagonisti originari della nascita della subcultura rossa: sono braccianti stagionali, lavoratori dei trasporti, famiglie che alternano lavoro agricolo e manifattura a domicilio, minatori, artigiani, migranti, osti, alcuni commercianti, maestri, medici. Insomma figure di contatto tra attività, luoghi, livelli culturali diversi. Sono loro che preparano e sostengono la conquista delle istituzioni comunali da parte degli antigovernativi, appena la legge lo consente, secondo una geografia fitta di micro regioni centro-settentrionali, che non coincide con delimitazioni amministrative di regioni e province. I mezzadri, nel suo racconto, appaiono marginalmente, soggetti a rapporti paternalistici e immersi in un contesto di arcaismi e subalternità, anche se certo più tardi lentamente contagiati e trascinati da un’analoga politicizzazione. Dunque più si sta soli e fissi sulla terra, più si sarebbe lontani dalla volontà di riscatto, come dicevano tanti socialisti di fine ‘800. È una narrazione dove la saldatura tra i microcosmi rurali di età preindustriale e il movimento contadino più organizzato d’Europa sembra avvenire senza durezze interne. La scena della conflittualità orizzontale, presente nella bassa di inizio ‘900, dove i conflitti comunitari globali contro gli agrari sono accompagnati da violenze fisiche e psicologiche contro i possibili dissenzienti, contro chi non obbedisce alle indicazioni della lega, anche solo di natura simbolica, come il divieto di un saluto al padrone o a un prete, quasi non si intravede. Forse per questo, al lettore di quest’interessante lavoro, resta anche un retrogusto di epopea.

Giacomina Nenci