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Mario Richter – Papini e Soffici. Mezzo secolo di vita italiana (1903-1956) – 2005

Mario Richter
Firenze, Le Lettere, pp. 243, euro 20,00

Anno di pubblicazione: 2005

Il volume di Mario Richter ricostruisce la storia di un’amicizia e di una comunanza intellettuale nel corso di un intero cinquantennio, e per farlo si serve dell’ampio carteggio fra Giovanni Papini e Ardengo Soffici, ora pubblicato presso le Edizioni di Storia e Letteratura in quattro volumi.
Il dialogo fra i due offre uno spaccato di come la loro generazione intellettuale attraversò la prima metà del secolo, dalla collaborazione al «Leonardo», a «La Voce» e a «Lacerba», fino al ventennio fascista. Un dato che emerge dal volume e che merita di essere segnalato è l’influenza reciproca, forte fin dai tempi del «Leonardo». E proprio il «Leonardo» è la prima palestra in cui entrambi mettono a fuoco un aspetto centrale della propria ?poetica?: il rapporto fra arte e nazione, ma anche l’idea della tragicità dell’arte come metafora filosofica di una dimensione tragica della vita che, almeno per Papini, sarà cifra fondamentale dell’esperienza intellettuale. E questa tragicità spiega per Papini la modernità e l’eticità del ruolo dell’operatore culturale. Alla stessa conclusione giunge Soffici nella propria ricerca stilistica sia in arte che nella scrittura: lo racconta per esempio la sofferta composizione de I mendicanti, un quadro attribuito al 1911, ma frutto di un lungo studio e di lunghi ripensamenti. Soffici giunge in quegli anni, diversamente dall’amico, alla convinzione che solo la totalità dell’arte potesse avere il compito di trasformare il mondo, sostituendosi così alla politica. Certo, a questa conclusione non sarà estranea la frequentazione con l’ambiente vociano, spesso necessitata anche dall’indigenza economica, dove la riflessione sulla purezza del genio (propria di Papini) sembrava convincere Soffici di aver trovato gli interlocutori giusti: e il Lemmonio Borreo sembrerà dimostrarlo.
Il volume di Richter mostra anche, di quel periodo, il rapporto fortissimo con l’ambiente parigino dei «Cahiers de la Quinzaine», formativo e determinante per entrambi, utile a spiegare la modalità del loro interventismo, per Papini chiarificatore anche del suo progetto di «Lacerba».
Dopo un periodo di freddezza (con Soffici perplesso di fronte a La storia di Cristo di Papini) il rapporto di amicizia riprende durante il fascismo: al fascismo entrambi aderiscono in modo critico, con coerenza rispetto alla vicenda intellettuale e artistica che li ha caratterizzati fino a quel momento, e che li ha formati; la stagione delle riviste e il dibattito interventista continuano a essere la chiave di lettura principale per capire le scelte di poi, per entrambi: accomunati da una fiducia di lungo corso verso Mussolini, continuano a scriversi e tutto sommato a illudersi, fino a Salò. Ma proprio gli ultimi capitoli del libro, che più avrebbero potuto gettare luce su aspetti nuovi, si rivelano carenti, forse soprattutto per le reticenze dei due, preparati a disilludersi, ma non ad ammetterlo. E il carteggio, a questo punto, non è più sufficiente per raccontarli.

Simona Urso