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Massimiliano Munzi – La decolonizzazione del passato. Archeologia e politica in Libia dall’amministrazione alleata al regno di Idris – 2004

Massimiliano Munzi
Roma, L’Erma di Bretschneider, pp. 152, s.i.p.

Anno di pubblicazione: 2004

Il titolo accattivante del libro di Munzi rimanda all’uso politico e ideologico delle testimonianze del passato nei processi di colonizzazione e decolonizzazione di specifiche società. Uso che, ci avverte subito l’autore, non è del tutto scomparso ai nostri giorni, dato che ?non più strumento di sopraffazione coloniale in senso classico, l’archeologia è ancora lo strumento morbido e falsamente inconscio dell’egemonia culturale delle potenze occidentali? (p. 12). Titolo e premessa inducono il lettore a prepararsi ad un confronto con i nodi centrali della questione: le relazioni di potere, le risorse della memoria, le strategie dell’identità, il discorso della razza, le pratiche del dominio, per dirne alcuni. Ma la sua aspettativa è presto delusa poiché il testo è immune dalla volontà o curiosità di confrontarsi con questi temi, peraltro in parte evocati dalla nutrita bibliografia finale. Non un accenno se ne fa, in un libro frammentario e descrittivo, privo di una proposta interpretativa coerente e convincente.
L’autore si è già occupato dell’archeologia italiana nella Tripolitania coloniale nel volume L’epica del ritorno. Archeologia e politica in Tripolitania, pubblicato dalla stessa casa editrice nel 2001. In questo lavoro allarga l’orizzonte dell’indagine all’intera Libia, utilizzando una periodizzazione che va dal 1943 al 1969. Di natura descrittiva sono le prime 60 pagine, elenco di dati e personaggi che animarono le missioni archeologiche delle aree analizzate, poste sotto il controllo alleato prima, poi, dalla creazione del Regno Unito di Libia nel 1951, affidate a studiosi e università di varie nazionalità. Le successive 60 presentano spunti purtroppo abbandonati nel corso dell’analisi. L’intento dell’autore di chiarire il ruolo dell’ideologia della romanità nella percezione dell’archeologia postcoloniale si perde infatti in una serie di capitoli, ricchi di un apparato iconografico peraltro di grande interesse. Le guide turistiche, i testi divulgativi, i francobolli, le monete vedono sminuita la propria natura di fonte complessa e densa di significato nel momento in cui se ne propone un’illustrazione che ruba spazio alla questione centrale della simbologia e del discorso rappresentati ed evocati. Non è dato sapere quale immaginario e quale spazio sociale vi si riflettessero, quale fosse la loro circolazione, che tipo di ricezione e fruizione incontrassero. Manca soprattutto, e questo è davvero inspiegabile, una riflessione approfondita sullo scarto politico e ideologico che ad esempio nel discorso della romanità l’avvicendamento delle varie autorità deve pure aver prodotto, mentre appare fuorviante, poiché non contestualizzato, l’uso propagandistico dell’archeologia libica da parte di forze politiche italiane (MSI in primo luogo). Sul tema della romanità e di quello contrapposto della libicità, l’autore dà solo un breve cenno senza coglierne le implicazioni razziali/razziste. Rimane un semplice e poco chiaro abbozzo anche il capitolo finale sull’uso dell’antico nel più ampio contesto dell’Africa del Nord e del Vicino Oriente. Dispiace, in sintesi, che un tema così importante e ricco di spunti interpretativi dia vita ad un libro malriuscito.

Simona Troilo