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Massimo L. Salvadori – L’Europa degli americani. Dai Padri fondatori a Roosevelt – 2005

Massimo L. Salvadori
Roma-Bari, Laterza, pp. 580, euro 45,00

Anno di pubblicazione: 2005

Salvadori ricostruisce il modo in cui ?la coscienza degli americani? si è posta di fronte al Vecchio Mondo, dalla Rivoluzione alla seconda guerra mondiale ? quando avvenne una ?svolta senza precedenti?. In questo lungo periodo, due distinte tendenze politico-culturali hanno operato in tensione fra loro: da una parte, l’idea che Vecchio e Nuovo Mondo appartenessero a una comune civiltà transatlantica; dall’altra, con molta maggiore convinzione, l’idea che i due mondi fossero in realtà contrapposti per valori etici e politici, e che quello Nuovo fosse decisamente superiore. In questo lungo periodo, due fasi distinte si sono succedute: la prima, fin quando l’Europa rimase potente, fu caratterizzata dalla separatezza dell’America, dal suo considerarsi isola felix protetta dagli oceani; la seconda, con il crollo del primato mondiale europeo, fu invece segnata dal coming out degli Stati Uniti come modello espansivo di democrazia e società teso a plasmare il resto del mondo. In entrambe le fasi, dice Salvadori, la preoccupazione principale degli americani fu quella si salvaguardare la propria supposta superiorità, isolandosi quando si sentivano deboli ma anche poco minacciati, intervenendo quando si sentirono minacciati direttamente e comunque ormai a loro volta autorevoli, forti, potenti. La seconda fase, naturalmente, iniziò con Woodrow Wilson e maturò con Franklin D. Roosevelt.
Salvadori assume come indicatore della ?coscienza degli americani? una serie di pensatori politici di élite, da lui analizzati con finezza. Si tratta, dice con un’osservazione che mi piace molto perché controintuitiva, di ?uomini colti, talvolta coltissimi? che (dai Padri fondatori fino a Theodore Roosevelt e Wilson) furono anche eminenti statisti ? una caratteristica che non ha riscontro nella cultura degli altri paesi del mondo occcidentale. Salvadori mette in nota solo i riferimenti ai testi dei pensatori discussi, e solo quelli. Non cita l’enorme storiografia che si è accumulata su ciascuno di essi, sulla questione specifica dell’intreccio di sguardi transatlantici Europa-Stati Uniti, e infine sulla costruzione dell’identità americana e quindi sullo sguardo americano sugli altri. Non la cita e non la discute, ed è un peccato, perché per molti versi la sua impostazione sembra rifiutarne molti dei più recenti sviluppi. I pensatori da lui considerati compongono infatti un canone che l’ultima generazione di storiche e di storici ha messo in discussione e stravolto: sono tutti maschi bianchi di origine anglosassone, ma proprio tutti. L’unica donna americana citata nell’intero volume è Jane Addams, in una nota a piè di pagina, come curatrice dell’opera di un maschio (l’unica altra presenza femminile registrata è Caterina II di Russia). Di afroamericani, non c’è nessuno. Sono scelte di cui sarebbe stato interessante sapere il perché.

Arnaldo Testi