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Michele Nani – Ai confini della nazione. Stampa e razzismo nell’Italia di fine Ottocento – 2006

Michele Nani
Roma, Carocci, 257 pp., euro 18,50

Anno di pubblicazione: 2006

Il volume di Nani è un interessante saggio di storia culturale che getta luce sulle tendenze repulsive piuttosto che coesive che si sprigionano all’indomani dell’unificazione. Il focus dell’indagine è posto sulla stampa subalpina, in particolare in relazione ai sudditi coloniali, al Mezzogiorno e agli ebrei. I punti di partenza sono essenzialmente due: l’analisi dell’importanza fondamentale della stampa e del print capitalism, che prende le mosse dalle conclusioni di Benedict Anderson, per la costruzione dei nazionalismi (non a caso il titolo di un paragrafo è Il Meridione immaginato), laddove il giornalismo è inteso non come mera rappresentazione, ma come spazio di mediazione culturale e di sintesi. L’ottica è, quindi, quella di analizzare come si costruisce culturalmente la nazione italiana. E tale costruzione si sviluppa come una «nazionalizzazione per contrasto» (e questo appare il secondo punto di partenza), in sintonia con il discorso di Gaetano Mosca sull’identità come elemento relazionale. In questa direzione l’autore svolge un’attenta analisi sugli articoli dei principali giornali piemontesi del tempo: la «Gazzetta di Torino», il «Corriere di Torino», «La Gazzetta Piemontese », «La Stampa» e altri. Per potersi affermare politicamente in un’epoca in cui forte era l’accento sul principio di autodeterminazione dei popoli, il discorso colonialista aveva necessità di enfatizzare l’inesistenza di una civiltà dei colonizzati: si esaltava, così, l’alterità e l’inferiorità africana, dando luogo ad un razzismo marcatamente eurocentrico. A questa impostazione razzista faceva riscontro la costruzione come «razza» degli stessi meridionali, abitanti delle regioni da poco annesse ma anche della Sardegna, di cui si sottolineavano l’irriducibilità caratteriale e l’atavismo. Il razzismo antiebraico passò, invece, attraverso un pensiero cattolico che si sentiva avversato dalla modernità e che in essa identificava il nemico principale: gli ebrei e il pensiero liberale divenivano, così, il segno di una società nazionale secolarizzata a cui si contrapponeva un’identità nazionale a sfondo religioso. Dalla ricerca, che è ampia e approfondita, emerge un’interpretazione del razzismo come categoria di lungo periodo nella storia italiana, in sintonia del resto con un’ormai affermata corrente storiografica (si pensi ai lavori di Alberto Burgio). Ma sono presenti anche considerazioni di ordine metodologico che sembrano far tesoro delle lezioni degli studiosi francesi (a partire da Pierre Bourdieu), che hanno sottolineato il nesso tra linguaggio e potere nei processi di costruzione identitaria e hanno individuato filosoficamente la radice del razzismo nell’oggettivazione dei caratteri, non visti nel loro formarsi relazionale; da qui un’analisi degli stereotipi visti come «giudizi essenzialisti».

Olindo De Napoli