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Nel mare che ci unisce. Il petrolio nelle relazioni tra Italia e Libia

Ilaria Tremolada
Milano, Mimesis, 272 pp., € 22,00

Anno di pubblicazione: 2015

Piuttosto che il Mediterraneo come spazio per lo scambio di uomini e idee, il «mare
che unisce» dello studio di Ilaria Tremolada è il mare di petrolio contenuto sotto le sabbie
libiche. Le vicende del petrolio libico e dei tentativi italiani per assicurarsene una quota
consistente, dopo aver dovuto rinunciare al controllo della colonia, sono rievocate dagli anni
’50 fino agli ultimi giorni di Gheddafi.
Il primo capitolo, di carattere più giornalistico, è una sorta di prequel che parte dagli
anni ’80 fino al grande compromesso postcoloniale del trattato Italia-Libia del 2008. Il vero
e proprio lavoro di ricerca parte dagli anni ’50 – quando il petrolio libico non era ancora stato
commercializzato – con una descrizione piuttosto dettagliata della legge petrolifera libica
del 1955. L’obiettivo dei libici, influenzati dal nazionalismo nasseriano, era quello di evitare
un monopolio delle majors anglosassoni per lasciar spazio anche alle «indipendenti».
Il secondo capitolo riguarda la fine degli anni ’50 e si dilunga sulla formazione e sull’interpretazione
del «neoatlantismo» italiano: un approccio di politica estera che mirava a fare
dell’Italia il riferimento occidentale per i paesi dell’Africa e del Mediterraneo e che ebbe
nell’Eni di Mattei il suo fiore all’occhiello.
Il succo del libro arriva con l’avvento di Gheddafi nel 1969. Tra la Rivoluzione e il
1974 l’Eni riesce a conquistarsi una posizione speciale nell’ex colonia anche grazie all’azione
del ministro degli Esteri Aldo Moro che soffoca ogni isterica reazione alla cacciata degli
italiani del 1970, si batte per un Mediterraneo «che ci unisce» e schiera il paese su posizioni
filoarabe. Il libro si chiude, piuttosto bruscamente, nel 1974 quando l’Eni sigla accordi che
ne fanno il primo partner nell’estrazione petrolifera e che si accompagna a una fruttuosa
collaborazione nel settore industriale.
Lo studio dimostra attenzione e competenza, per quanto alcuni difetti ne rendano
un poco indigesta la lettura ai non specialisti. In primo luogo, restiamo chiusi nelle stanze
claustrofobiche dei negoziatori petroliferi mentre le finestre vengono troppo raramente
aperte sullo scenario della decolonizzazione e della ricostruzione dei rapporti postcoloniali.
Per esempio: i rapporti tra Francia e Algeria, rinati su nuove basi proprio a metà anni ’70,
sarebbero stati un utile termine di paragone. È discutibile l’utilizzo di fonti archivistiche per
seguire ogni evoluzione dei negoziati petroliferi, anche quelli di Tripoli e Teheran sui quali
esiste una sterminata letteratura che forse poteva essere di aiuto. Un piccolo difetto, irrilevante
per i non specialisti, è la mancata comprensione del fatto che le royalties, sino alla fine
degli anni ’60, erano incluse all’interno della distribuzione al 50/50 dei profitti.
Lo studio della Tremolada è un contributo utile – la descrizione dei negoziati per la
legge petrolifera libica del 1955 mi sembra nuova – ma è forse un’occasione persa per allargare
il pubblico dei lettori a tutti quelli interessati a un rapporto cruciale come quello
tra Italia e Libia.

Giuliano Garavini