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Prigionieri per sempre. Politiche di propaganda e storie di prigionia italiana tra Egitto e India,

Salvatore Lombardo
Aracne, 283 pp., € 15,00

Anno di pubblicazione: 2016

Una solida ricerca archivistica ha prodotto un volume dal titolo intrigante su una
tematica spesso evanescente. I Prigionieri per sempre rievocano i «reduci a vita», formula
con cui Mario Isnenghi nel 1989 indicava i militari italiani catturati dalle forze armate
nemiche nel corso della seconda guerra mondiale: uomini connotati per sempre da una
sconfitta che non sarebbe mai stata integrata nella memoria nazionale. Tra tutti l’a. prende
in considerazione quanti furono catturati dai britannici e reclusi nei campi in Egitto e in
seguito in India.
In questi territori furono praticate tra il 1941 e il 1943 politiche di propaganda, in
particolar modo dall’agenzia di intelligence Pwe (Political Warfare Executive). Si intendeva
costituire una Free Italian Force, un gruppo di uomini che avrebbe combattuto al fianco
degli alleati. Le difficoltà organizzative indussero a preferire i campi indiani per tentare
un «programma a sei stadi» (p. 107) di rieducazione, discriminazione, separazione e riorganizzazione.
Si riteneva necessario trattare amichevolmente i prigionieri italiani con
attività ricreative e corsi di inglese, per predisporli a forme efficaci di propaganda, quali
quotidiani dedicati e programmi radiofonici locali e internazionali. Il reclutamento dei
prigionieri antifascisti destinati a battaglioni denominati «Italia Redenta» venne predisposto
nell’aprile 1943: due anni più tardi si contavano appena settecento volontari.
La caduta del regime e l’armistizio determinarono un’ulteriore politica di discriminazione
tra i prigionieri, sollecitandoli a dichiarare formalmente l’intenzione a cooperare
o meno. La complessa struttura dei campi indiani si spaccò allora negli schieramenti dei
blacks, i fascisti, e i whites, inclini alla causa monarchico-badogliana. Isolati i primi, i secondi
finirono per essere impiegati in lavori specializzati in India o trasferiti in altre parti
dell’Impero.
L’ampia analisi sulla propaganda prearmistiziale induce l’a. a valutarla come fallimentare,
se non per un esito tutt’altro che desiderato: «contribuì a creare l’identità specifica
degli ufficiali non cooperatori d[el campo indiano di] Yol» (p. 242); nel dopoguerra
ne trasse inoltre beneficio una formazione politica marcatamente fascista come il Msi.
L’a. si rivolge quindi alle riviste per i reduci gestite nel dopoguerra dagli ex non
cooperatori e alle loro memorie che rafforzarono l’identità politica maturata nei campi.
Il confronto con i testi autobiografici degli ex cooperatori si esaurisce in rapide considerazioni,
scarsamente problematizzate, per cui la loro scelta viene giudicata «scontata» (p.
229) e «deludenti» (p. 234) i loro articoli. Un lettore di autobiografie, direbbe Lejeune,
dovrebbe essere più tollerante, mostrando le competenze letterarie, psicologiche e sociologiche
per comprenderle. Fornire riferimenti più circostanziati sulle politiche di detenzione
e propaganda statunitensi sarebbe infine risultato utile alla comparazione con le
memorie dei Pows italiani citati solo superficialmente

 Erika Lorenzon