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Progetto «menabò» (1959-1967)

Silvia Cavalli
Venezia, Marsilio, 255 pp., € 23,00

Anno di pubblicazione: 2017

nell’ultimo ventennio ha esplorato il tema del 25 aprile e delle sue manifestazioni rituali nella più ampia cornice della presenza della Resistenza nello spazio pubblico dell’Italia repubblicana. L’obiettivo, esplicitato nel sottotitolo, è quello di dar conto della pluralità di percorsi, campi semantici e della loro simultanea incidenza nella società. La prima parte si sofferma sul discorso istituzionale e politico: in quanto «festa della liberazione», il 25 aprile è osservato nella prospettiva dei vertici istituzionali (Agostino Bistarelli), visto come specchio delle dinamiche che hanno animato le forze politiche nelle diverse stagioni della storia repubblicana (Marco De Nicolò e Marco Gervasoni), commentato attraverso le voci degli irriducibili oppositori della destra postfascista, che lo bollarono come «festa dell’odio» (Alessandra Staderini). La seconda parte, incentrata sulle culture e i linguaggi, propone una selezione di itinerari di ricerca: le «parole» della Liberazione (Riccardo Gualdo), la produzione cinematografica (Maurizio Zinni), le canzoni d’autore (Paolo Carusi); infine un confronto incrociato, centrato sulla «medesima ricerca di una modalità espressiva corale» (p. 186), tra la poesia 25 aprile di Alfonso Gatto (1946) e il romanzo di Nanni Balestrini Una mattina ci siam svegliati (1995) (Massimo Castoldi).
Nel complesso, con diversi livelli di approfondimento analitico e di apertura al confronto con le ricerche esistenti, il libro costituisce una utile messa a punto storiografica e si distingue per lo sguardo focalizzato sulla giornata «in sé», fatti salvi gli ovvi richiami che la legano al contenitore più ampio della memoria resistenziale. Ne derivano alcune domande e sollecitazioni interessanti (ad esempio, l’invito a un dialogo più stretto tra storici e linguisti), che rilanciano gli interrogativi sui significati del 25 aprile (e in senso lato della Resistenza) nell’arena pubblica: una riflessione che appare tanto più attuale, a fronte delle trasformazioni più complessive che incidono sulla capacità di tenuta – storiografica, politica, simbolica – dei riferimenti su cui per molti decenni si è appoggiata la legittimazione dei vari soggetti della democrazia repubblicana.
Massimo Baioni
Silvia Cavalli, Progetto «menabò» (1959-1967), Venezia, Marsilio, 255 pp., € 23,00
I dieci numeri del «menabò» di Vittorini e Calvino sono un prezioso documento di un’epoca di transizione dalla letteratura testimoniale e sperimentale del dopoguerra, quella degli einaudiani Gettoni, a una stagione in cui convivono (non senza tensioni) le ragioni della narrativa industriale e quelle della neoavanguardia. La rivista tende a scardinare la contrapposizione tra collana e periodico, proponendo – vittorinianamente – una cultura nel suo farsi, con un ragionamento che si sviluppa sulla base di problemi comuni (la letteratura meridionalista, i rapporti tra letteratura e industria, la poesia contemporanea), per dare in seguito spazio alle novità linguistiche e formali, anche sulla scorta della riflessione intorno alla crisi del romanzo.
Strumento di intervento e dibattito virtualmente rivolto non alla sola élite degli umanisti eruditi, il «menabò» lascia trasparire la richiesta, sempre più pressante da parte di Vittorini, di un confronto diretto con il tema industriale e la vita delle fabbriche, che, una volta raffreddati i primi entusiasmi, si rivela attenzione non all’aspetto documentario, ma ai mutamenti sociali ed economici e alle conseguenze che questi hanno sull’uomo contemporaneo, sui suoi rapporti interpersonali, sulla sua psicologia, sulla sua lingua, sempre alla ricerca dell’elemento che sia allo stesso tempo individuale e universale, «metafora» (pp. 98-99). La lingua letteraria, stando a Vittorini, deve infatti essere segno di quanto avviene nella società senza essere pura registrazione I dieci numeri del «menabò» di Vittorini e Calvino sono un prezioso documento di un’epoca di transizione dalla letteratura testimoniale e sperimentale del dopoguerra, quella degli einaudiani Gettoni, a una stagione in cui convivono (non senza tensioni) le ragioni della narrativa industriale e quelle della neoavanguardia. La rivista tende a scardinare la contrapposizione tra collana e periodico, proponendo – vittorinianamente – una cultura nel suo farsi, con un ragionamento che si sviluppa sulla base di problemi comuni (la letteratura meridionalista, i rapporti tra letteratura e industria, la poesia contemporanea), per dare in seguito spazio alle novità linguistiche e formali, anche sulla scorta della riflessione intorno alla crisi del romanzo.
Strumento di intervento e dibattito virtualmente rivolto non alla sola élite deg naturalistica, e anche per questo motivo si fa evidente, tra il quarto e il quinto fascicolo della rivista, l’apertura alla neoavanguardia (Sanguineti, Eco, Colombo in primis) e dunque la ricucitura, in parte ambigua, non tanto tra due correnti diverse, ma tra due modi diversi di giudicare la scrittura, l’uno in funzione della realtà secondo la lezione de «Il Politecnico», l’altro partigiano della preminenza del momento letterario. Nel ricomporre tale scissione, il «menabò» si afferma come rivista mediatrice, dialogante, democratica (perché fondata su un lavoro collettivo) e, possibilmente, educativa sul piano intellettuale, grazie all’apertura a linguaggi diversi, all’ibridazione dei generi, ai legami con altre discipline e con la modernità del mondo tecnologico e scientifico con il quale la letteratura vuole tornare a competere: è questa la versione della nuova cultura di Vittorini negli anni ’60, che per lo scrittore siciliano passa soprattutto dall’attività editoriale (anche a livello internazionale, con l’abortito progetto di «Gulliver»), mentre per Calvino è principalmente ricerca sul piano narrativo.
Il libro di Cavalli, che ricostruisce filologicamente la complessa elaborazione compositiva della rivista e i suoi mutamenti critici, facendo ampio ricorso a carteggi editi e inediti, ha il merito di mettere a fuoco anche il rapporto tra i due direttori, in disaccordo sulla narrativa industriale e sulla neoavanguardia, ma entrambi convinti della possibilità e della necessità di conoscere il mondo tramite una letteratura aperta alla realtà.

Fabio Guidali