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Public History. Discussioni e pratiche

Paolo Bertella Farnetti, Lorenzo Bertucelli, Alfonso Botti (a cura di)
Milano-Udine, Mimesis, 338 pp., € 24,00

Anno di pubblicazione: 2017

La Public History (PH) non è più, come scriveva Serge Noiret nell’importante fascicolo
di «Memoria e Ricerca» del 2011, una «disciplina fantasma». Non guadagna spazio
soltanto a livello internazionale, dato che esiste ormai una International Federation for
Public History (Ifph) ed è stata costituita una specifica commissione all’interno del Cish.
Anche in Italia nascono i primi corsi e all’affollato convegno di Ravenna del 2017 (circa
700 partecipanti) è stata creata una associazione nazionale. Ancora rarefatte sono però le
disponibilità editoriali. Come scrive Thomas Cauvin, autore di un agile manuale, i testi
di riferimento sono ancora quelli americani (p. 70) o almeno anglosassoni: una considerazione
che si può confermare anche a un anno dall’uscita del libro.
È perciò assai utile questo informato volume. Lo introduce uno dei maggiori esperti
del settore, Noiret, con un denso saggio sul carattere globale della disciplina, di cui ricorda
tappe e principali punti di riferimento. I saggi di Cauvin, Bertella Farnetti, Bertucelli e Ridolfi
consentono di ben seguire le tappe di un movimento internazionale e transnazionale
ma anche di riflettere sui contributi italiani, pionieristici e in qualche modo «inconsapevoli»
ma nondimeno metodologicamente solidi e talvolta decisamente innovativi.
Quasi tutti gli interventi, concentrandosi sull’Italia, ripensano il contributo di Gallerano.
Non è un caso: se l’uso pubblico della storia di Habermas si contrappone alla
pluralità di una PH di stampo assai diverso, pure la linea di confine è a volte meno netta
di quanto apparirebbe a prima vista. Del lavoro fatto in Italia parla in dettaglio Ridolfi.
Ravveduto condivide le esperienze da lui fatte a Salerno, mentre Ventrone si interroga
sulle sfide della PH. Nella seconda parte del volume, Dau Novelli si sofferma sulle storie
di imprenditori, Canovi sulla storia orale partendo dal Musée de l’histoire vivante di
Montreuil. Salvatori scrive di storia digitale – cruciale per i digital archives e per il crowdsourcing
– mentre Simoni affronta il tema dal punto di vista degli archivi audiovisivi di
famiglia. Iervese, Cipolloni e Mignemi tematizzano il rapporto con il cinema e la musica;
Scanagatta quello con la ricerca creativa, mentre Teyssier richiama l’attenzione sulla discutibile
esperienza dei gladiatori. Di Giacomo riprende il tema dei musei, decisamente
centrale per la PH.
Il volume, talvolta discontinuo, presenta molteplici punti di vista, ma anche voci
critiche; in un saggio ancora una volta largamente dedicato alla rilettura di Gallerano,
Botti sottolinea i rischi presenti: «Ho qualche difficoltà a definire la Public History come
disciplina […]. Di contro, sono convinto che la Public History offra la possibilità di
trovare un pubblico più vasto per la costruzione del discorso storiografico, […] a patto
che non si perda nulla del bagaglio critico, metodologico e concettuale del “mestiere di
storico”» (p. 105).
Un utile caveat in rapporto alle sfide di un ambito importante, del quale non si può
non tener conto.

Ilaria Porciani